Tuttolibri, 19 febbraio 2022
Francisco Umbral, un delinquente griffato Pierre Cardin
Il nome di Francisco Umbral dice poco ai non iberofili. Eppure nella sua Penisola è una leggenda. Addirittura «una droga». Tant’è che i nemici (adorava fossero tanti) lo invitavano a cena apposta per finire immortalati nei suoi resoconti. Appariva con un’eterna sciarpa rossa intorno al collo, i lunghi capelli bianchi sciolti, definendosi con vanto «Sono un delinquente griffato Pierre Cardin». E vista la sua ammirazione per i dandy, Baudelaire, o Mariano José de Larra, lo scrittore suicida per amore (andò a casa di un suo discendente a fotografare la finanziera con gli schizzi di sangue ormai ridotti a macchioline ocra) ti aspettavi fosse un maledetto. In realtà, a parte qualche whisky, praticò una sorta di ascesi creativa («Non mi interessano le cose generalmente proibite»). Invece litigava volentieri, trattava con sprezzo chi voleva parlare di lettere ma non aveva capito l’abnegazione che Esse richiedono. Lui che a questo culto s’era votato, scrisse tantissimo, un centinaio di libri, migliaia di articoli. E se gli chiedevano chi fossero i tre massimi scrittori spagnoli, forniva un terno secco: «Umbral, Umbral, Umbral». La notte che arrivai al Café Gijon, che esce nella raffinata traduzione di Giuliana Calabrese è una delle sue opere più intime e corali. Rivela una vocazione conquistata con audacia, e il disgelo degli anni 60, quando il franchismo ormai tollerato solo «per noia» dall’intero pianeta si schiudeva lentamente all’esterno e, complice il benessere economico, stava per sciogliersi in quella movida che nel decennio successivo Almodóvar ci avrebbe raccontato al cinema.
Umbral era nato nel 1936 da una ragazza madre che non l’aveva riconosciuto per evitare lo scandalo. Era cresciuto in provincia, a Valladolid, con il dolore per un padre inesistente e il fuoco dell’ambizione. Verso i trent’anni decise di andare a Madrid, per conquistarla con la macchina da scrivere che «maneggiava e accarezzava come fosse una mitragliatrice». Sebbene all’inizio fosse troppo povero per possederne una (poi ebbe una mitica Olivetti portatile). Dormiva in pensioni di infima categoria. E sapeva che per spiccare il volo sarebbe dovuto andare al Gijon, perché quel caffè era il baricentro di tutto. Nel riverbero dei suoi specchi nascevano e morivano le glorie di chi voleva fare, o sentirsi, qualcosa.
Potevi mangiare, bere, incontrare gente, o semplicemente scialare la vita senza fare nulla. Letterati, pittori, toreri, prostitute, ricchissimi bellimbusti o miserabili che potevano permettersi solo un bicchiere d’acqua: il caffè accoglieva tutti nel suo immenso ventre caldo, fumoso, odoroso di profumi e alcol. Scoloriva persino le ferite della guerra civile, perché i falangisti e i servi del regime, stavano insieme ai repubblicani sopravvissuti ai massacri o gli sfigatissimi intellettuali di sinistra che non avevano avuto la fortuna di morire da martiri, e facevano la fame nei retroscena della vita spagnola «cercando la luce di un sole remoto che illuminava il paese ancora libero quando loro erano adolescenti».
Vi passavano anche tante figure femminili. Le studentesse progressiste, che facevano la loro piccola rivoluzione antiborghese attraverso il sesso, erano l’avanguardia più ambita. Altrettanto eversive erano le turiste straniere che davano spago ai dongiovanni e contrabbandavano brandelli di Occidente, libri proibiti, modernità censurate. Poi le modelle dei pittori, e soprattutto le attrici. Celebri, decadute, aspiranti che portavano con sé il fascino del Cinema. Anche Umbral lo fiancheggiava, ma lo snobbava. Conobbe pure Sofia Loren («non aveva quel testone che si vede sullo schermo, bensì un capo e un viso quasi minuti, di grande fascino. E poi, ovviamente, c’era l’enorme spettacolo dei seni...») ma scrivere sceneggiature «con didascalie tecniche, dialoghi sintetici, eccesso di maiuscole, era più noioso che fare il resoconto sulla Compagnia del Gas di Madrid».
Lui ambiva solo ai libri. All’inizio fu dura. Gli editori che lo chiamavano al telefono della pensione umido di altre mani dicevano dei suoi manoscritti da pubblicare «forse sì», «vediamo», «purtroppo no...». Lui tornava in stanza e si metteva a piangere sull’ampio letto. Supino, però, «perché a pancia in giù piangevano solo le signorine dei film». Ha idee precise sulla letteratura, ambiziose, strafottenti. Gli interessa cogliere lo spleen di Madrid, le illusioni, gli amori, le ambizioni, le corride esistenziali, il mobilio piccolo borghese, le notti vuote e placide, le meschinerie, la Bellezza. Non le verità «grandi» dei classici che sono noiose (storce il naso anche su Cervantes), ma quelle «piccole» degli uomini concreti che incontri per strada. Per questo racconta con il puntiglio etnologico del ragazzo di provincia tutte le sfumature delle «tertulias», termine che indica le piccole congreghe riunite per parlare degli argomenti più vari, dal sublime al dozzinale. Fa parte del gioco, anzi, è ingrediente basilare, il pettegolezzo, la maldicenza, il discredito feroce da riversare sugli assenti. Ci sono pure gli «odiatori» che siedono in disparte con volto ingrugnato a rimuginare livore verso qualcuno e non si sa perché.
Il campionario umano è immenso. C’è il potente Cela (che un giorno sarà Nobel), ma soprattutto una pletora di artisti che non sono andati al di là delle invettive, dei proclami, del quartierino, degli amici frustrati come loro, come il farmacista poeta dilettante noto solo perché il suo cognome inizia per A e nelle antologie collettive è il primo in ordine alfabetico sul frontespizio.
Le biografie delle persone incontrate, lette, ammirate, si mescolano con l’(auto)biografia, con i ricordi proustianamente incistati di profumi, sapori, gusti. L’Io ingoia il mondo e viceversa. Il memoir diventa così una grande enciclopedia della vita e degli infiniti modi di viverla. Uno sopra tutti. La cui chiave è nel finale. La notte che arrivai al Café Gijon si conclude con le esequie di Gómez de la Serna. Motociclisti comunali in ghingheri, la banda suona, il vento raggela, i curiosi si agitano intorno alla salma «di uno scrittore ormai sconosciuto», il fotografo a cavalcioni sulla fossa cerca l’angolo migliore da cui scattare. A ben guardarlo sembra il funerale dell’ambizione. Neppure i «grandi» scrittori riescono a sottrarsi al logorio della mediocrità, al kitsch dell’assurdo. La Letteratura all’Umbral giovane e ardente era sembrata l’immortale salvezza dalla volgarità del mondo. Ora invece è sempre più chiaro un altro, sublime, compito: coltivare il disincanto. —