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 2022  febbraio 19 Sabato calendario

Intervista a Eshkol Nevo

Eshkol Nevo è nella sua casa di Raanana, cittadina a venti chilometri da Tel Aviv, l’appuntamento per il nostro colloquio è per le sei di pomeriggio. La giornata si complica per tamponi positivi, figlie con il Covid e conseguenti beghe. Ci parliamo via Whatsapp, si scusa e chiede se possiamo spostare alle 11 di sera. «Sono un animale notturno», dice. Per me non ci sono problemi. Così affidiamo la nostra conversazione alle ore silenziose e tranquille della notte. E alla fine è stato un bene, come vedrete.
Nevo ha cinquantun anni, è nato a Gerusalemme da genitori psicologi, anche lui ha studiato psicologia tra Detroit e Haifa, quindi ha lavorato in pubblicità prima di approdare alla letteratura, che insegna all’università e alla House Workshops, una scuola di scrittura creativa da lui fondata. Suo nonno Levi Eshkol è stato primo ministro (dopo Ben Gurion e prima di Golda Meir) ed è ricordato come uno dei padri fondatori dello Stato di Israele.
Sono dati biografici importanti per capire chi è questo uomo dalla voce gentile e calma, da cui traspaiono l’arguzia e l’ironia che ritroviamo anche nei suoi libri, in Italia pubblicati da Neri Pozza. L’ultimo è Le vie dell’Eden, ma ricordiamo anche Tre piani, Nostalgia, La simmetria dei desideri, Neuland, L’ultima intervista e Il vocabolario dei desideri.
Il suo non è un cognome neutro, in Israele. E per le sue posizioni politiche profondamente critiche verso la politica di Netanyahu (contro il quale si è speso personalmente), oltre al fatto di essere un allievo di Amos Oz, dice che in patria è difficile che la sua opera venga letta per quello che è, sfuggendo cioè a un giudizio preventivo, positivo o negativo che sia, sulla sua persona e non sul libro in se stesso. Per questo gli piace quando i suoi romanzi arrivano all’estero, dove vengono accolti con mente libera, in particolare in Italia, che considera una seconda patria.
Nell’ultimo libro c’è addirittura un personaggio italiano, cita Paolo Giordano e Paolo di Paolo e un proverbio: «si raccoglie quel che si semina».
Come è nata questa forte connessione con l’Italia?
«Non so, è capitato così. Tre piani ha venduto più in Italia che in Israele. Forse perché gli argomenti dei miei libri – amicizia, relazioni umane, amorose e sessuali – interessano ai lettori italiani. Quando vengo in Italia c’è sempre grande attenzione, sono tutti molto coinvolti emozionalmente. Davvero è un mistero, ma mi piace e per questo nel libro ho voluto mettere un omaggio all’Italia, una strizzatina d’occhio di ringraziamento».
Parlando di geografie dei sentimenti, lei crede che potrebbe scrivere i suoi libri in Italia?
«Io sono uno scrittore israeliano. Scrivo in ebraico, sogno in ebraico, e questo è un luogo di sentimenti e relazioni molto intense, pieno di conflitti ovunque, nelle strade, nei rapporti quotidiani. Pieno anche di malintesi, di tentativi falliti di comprendersi a vicenda, tra popoli e tra persone. Anche la lingua mi influenza profondamente».
Per esempio?
«Quando ho scritto la parola “frutteto”, che apre l’ultima delle tre storie, immediatamente la semplice parola mi ha portato al Talmud, dove il frutteto evoca l’Eden, è un sinonimo di Dio, dell’incontro con Dio, forse è una metafora per la mistica della Cabala. Tramite la parola “frutteto” ho capito come organizzare le tre storie e perché dovevano stare insieme e perché ognuno di questi personaggi cercando l’Eden finisce nei guai. Se l’avessi scritto in italiano, per esempio, non sarebbe accaduto. Ogni parola che scrivo in ebraico si porta dietro tanti altri strati che sono estremamente connessi con la mia cultura. Ne La simmetria dei desideri i personaggi scrivono i propri desideri su pezzettini di carta, e solo dopo ho realizzato che è ciò che facciamo al muro del pianto a Gerusalemme. Religione, cultura, lingua, tutto si tiene».
Uno dei personaggi tiene un blog dove scrive 100 racconti di 120 parole. Anche questo ha a che fare con la cultura ebraica?
«Non proprio. Ma le racconto una cosa buffa. Nella versione ebraica i racconti sono di 100 parole. Ma la traduttrice italiana Raffaella Scardi mi ha detto che non riusciva a contenerli in così poco spazio, così ha suggerito di farlo in 120 parole. Ed è venuto bene, perché anche il numero 120 è connesso con le nostre tadizioni: abbiamo 120 parlamentari in Israele perché all’origine c’era una sorta di consiglio dei leader composto da 120 persone. Quindi 120 per la nostra cultura giudaica non è solo un numero».
Nei suoi libri c’è sempre un trauma alla base del comportamento dei personaggi. Lei ha una formazione psicologica, crede che le azioni umane si possano ridurre a una lettura psicologica?
«Sì, ma non in un modo diretto. Non credo che le teorie psicologiche si possano applicare come formule matematiche, per questo ho deciso di non fare lo psicologo. Anche Tre Piani, che era ispirato alla topografia della psiche disegnata da Freud – l’Es, l’Io e il Super-Io – non rispecchia totalmente quello schema. La vita delle persone reali non segue le teorie psicologiche, non credo nelle generalizzazioni e non disegno i miei personaggi secondo una struttura psicologica. Certo, il passato è importante per definire ciò che uno diventa. Ma lo sono altrettanto i desideri e le passioni. Siamo esseri umani, è questo che mi interessa».
Passioni e desideri sono al centro anche di “Le vie dell’Eden”. Un libro molto intenso scritto durante la pandemia. Come è successo, mentre altri scrittori hanno avuto un blocco totale durante i lockdown?
«Ho veramente avuto bisogno di scrivere in quel periodo. Posso dire che questo libro mi ha salvato. La realtà era così piena di paura, incertezza, angoscia che mi sono rifugiato nell’immaginazione con una forza inedita. Sono stato fortunato perché avevo già scritto un lungo racconto a puntate per Vanity Fair in Italia, intitolato La luna di miele. Da lì ho approfondito i personaggi ed è nato questo romanzo. Doveva essere una narrazione intensa per bilanciare la noia e l’isolamento dei lockdown. Nella realtà non ci potevamo baciare, abbracciare, toccare. La fiction doveva essere l’opposto, rapporti intensi, molto sesso, conflitti, violenza, relazioni umane portate alle estreme conseguenze».
Parliamo di donne e di violenza. In questo libro ci sono molti accenni a costrizione, divieti, umiliazioni, donne disturbanti perché disturbate. È stato influenzato dal #MeToo?
«Non è un caso. Il #MeToo in Israele è una vera rivoluzione, credo molto più forte che altrove o in Italia. Sta cambiando la nostra società in un modo drastico e vedo il suo effetto sulle mie tre figlie, di 18, 16 e 11 anni. Il modo in cui si sentono sicure di loro stesse, la conoscenza dei propri diritti e dei propri desideri è completamente diverso da quello delle donne della mia generazione. Ma il mio libro non parla apertamente di #MeToo perché i personaggi femminili sono più ambivalenti».
Non ci sono violenze dirette. Ma situazioni ambigue. Lei scrive che le vite non sono o-o ma sia-sia.
«Le mie donne sono più sfaccettate, e le situazioni sono volutamente ambigue perché è vero che nel primo racconto Mor viene chiusa a chiave nella stanza dal marito, ma lei l’ha tradito. È una femme fatale adescatrice o una povera infelice? E il medico della seconda storia è un abusatore o è mosso da istinti paterni di protezione? E nel terzo racconto è ancora più fluido, perché ognuno può essere sessualmente qualunque cosa. È complicato perché la vita è complicata».
Lei ha partecipato a Rave Party?
«Mi sarebbe piaciuto partecipare a un party così estremo come quello del libro e provare a essere uomo o donna. Ma purtroppo no, ma ci sono stato e vado ancora ed è vera libertà».
Anche in questo romanzo c’è il Sud America e la musica, che sono sue passioni. E cita molto “Dune” di Frank Herbert. È un suo libro cult?
«Credo che sia uno dei libri più belli mai scritti. Ha avuto una grande influenza su di me, l’ho letto quando ero un teenager, poi quando ho fatto il mio viaggio per il mondo con lo zaino, e poi da scrittore. Non è solo un libro di avventura e fantascienza, ma molto più ambizioso. Tocca religione, filosofia, storia seppure distopica e sono un vero fan».
Sentimenti forti, molto sesso, passioni e paura: i personaggi per passione fanno cose totalmente irrazionali. Qual è la cosa più stupida che ha fatto lei per amore?
«Glielo dico perché siamo nel mezzo della notte e questo rende il colloquio più intimo. Di giorno non glielo avrei detto. Una notte ero al telefono con quella che sarebbe stata la mia futura moglie e mi diceva al telefono vorrei che fossi qui. Ho preso la macchina, ho guidato da Tel Aviv a Gerusalemme e gli ho bussato alla porta: eccomi qui».
Non mi pare così pazza.
«Era un periodo da pazzi. Dai 24 ai 30 anni ci siamo presi e lasciati non so quante volte. E nel frattempo avevamo altre storie. L’ultima cosa da pazzi è successa dopo due anni che non ci vedevamo. Lei aveva un fidanzato, io una fidanzata. Un giorno mi chiama e mi dice: vediamoci alla spiaggia. Sono andato e quando l’ho vista ho pensato: questa è la donna della mia vita, cosa ci faccio con un’altra. Siamo stati un paio di ore insieme e il giorno dopo io ho lasciato la mia fidanzata lei il suo fidanzato e poi ci siamo sposati. Succede quando uno è innamorato».
Questa volta però mi pare che parli meno di amore romantico e più di attrazione sessuale.
«Sì, deve essere la reazione al Covid. Ho dovuto scrivere un libro dove i personaggi si toccano in continuazione l’un l’altro e si abbracciano. I corpi, la passione, i nostri istinti profondi, che sono anche sessuali, sono scatenati».
E si parla anche di verità e di fiducia. Ci si può veramente fidare di un altro essere umano? E fino a che punto?
«Questa è una bella interpretazione. C’è un problema di fiducia nelle relazioni in questo libro, di onestà e di menzogne. Ed è anche la lettura più politica che si vede in controluce e credo sia un altro effetto della pandemia. Noi abbiamo vissuto sotto un primo ministro bugiardo che ha mentito in continuazione per non finire in prigione, completamente inattendibile. Abbiamo avuto tre elezioni in un anno e in una costante campagna elettorale tutti mentono in continuazione».
Ne “L’ultima intervista” ha scritto che gli scrittori mentono sempre durante le interviste. Da 1 a 10 quanto ha mentito stavolta?
«Per niente. Dopo aver scritto quel libro non sono più in grado di mentire nelle interviste. E poi dopo le 11 di sera non si possono dire bugie in Israele, è il tempo delle confessioni».—