La Stampa, 19 febbraio 2022
Non c’è pace
Un paio di giorni fa, Domenico Quirico si chiedeva dove fossero finiti i pacifisti e ha ragione, a questo giro né bandiere arcobaleno né sfilate di ragazzi né canzoni dolenti, niente di niente. Siamo a un palmo dalla guerra a un palmo dall’Europa ma le strade non si riempiono di invocazioni alla pace, e mi illudo dipenda dalla vanità dell’invocazione, poiché non è più dato scendere in strada a invocare la guerra (per fortuna). Ma è forse più probabile derivi dall’incondizionato rifiuto occidentale di prendere in considerazione l’eventualità della guerra. Secondo Luciano Canfora è così da sempre, dalle guerre del Peloponneso, che scoppiavano mentre i greci erano in tutt’altro affaccendati. Ma a me pare stavolta sia un rifiuto particolarmente spettacolare: ieri ho navigato un po’ per i social e ho visto dispute attorno alla dignità o all’indegnità di allungare la mancia ai rider, attorno alla miliardesima gaffe di Michele Emiliano, attorno a una fetta di pizza di Chiara Ferragni. Di Ucraina, poca poca, e come se la guerra fosse una sventura esclusivamente loro. Però una piccola manifestazione pacifista c’è stata, organizzata l’altra sera da Sant’Egidio in piazza Santi Apostoli, e Petro Golineg, un prete ucraino dell’esarcato greco-cattolico, ha spiegato di volere la pace, e di non conoscere altra strada di conquistarla se non attraverso la vittoria: «Se noi ci arrendessimo, avremmo la pace domattina. Ma che pace sarebbe?». Chissà se Petro ha mai letto Cicerone, quando scriveva che la pace è dolce ma invitava a non confonderne la conquista col cedimento alla servitù, l’ultimo di tutti i mali.