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 2022  febbraio 19 Sabato calendario

L’invenzione che manca alla narrativa italiana


Parto, e me ne scuso, da un piccolo fatto che mi riguarda. Un recensore mi ha annoverato tra i pochissimi scrittori rimasti a praticare una narrativa d’invenzione, o fiction, che pure ha dato al mondo, in passato, quasi tutti i suoi capolavori. Essa rimane nella letteratura di genere, che ha riempito i nostri scaffali (e i nostri gusti, purtroppo) di commissari, sostituti procuratori e anatomopatologi, oppure – con minore insistenza – di grandi saghe familiari.
Al di fuori dei generi, la letteratura cosiddetta «maggiore» si è dedicata, e non solo in Italia, soprattutto alla non-fiction, all’auto-fiction, al mémoir. In altre parole, all’autobiografia. Ho sempre pensato che dopo Le confessioni di Agostino e la Recherche di Proust questa pratica potesse dirsi superflua, almeno dal punto di vista strettamente letterario. Cos’altro possiamo aggiungere sotto la voce «raccontare la propria vita»? Eppure è proprio questa la tendenza dominante, e con ottimi risultati, come testimoniano tanti bravissimi autori, a cominciare da Emanuele Trevi fino a Mencarelli, Di Consoli e altri. Li affiancano alcuni critici frettolosi di mettere coperchi sulla letteratura, dichiarando ad esempio che il Romanzo è morto con Pastorale americana e altre cose simili, anche se io penso che la teoria vada sempre utilizzata come punto d’arrivo di un’indagine critica sempre aperta alle sorprese, e non come assunto. Ma forse i critici hanno perso essi stessi la capacità di leggere un racconto d’invenzione, che è fatto di pieno ma anche di vuoti, richiede molta finesse nel senso pascaliano e non si lascia accalappiare dal geometrismo imperante.
Il racconto d’invenzione sembrerebbe dunque migrare non tanto al cinema (il cui panorama va sempre più somigliando, in Occidente, a quello letterario sopra descritto – tanto che le cose migliori ci giungono ormai soprattutto da Oriente: Giappone, Cina, Corea), quanto verso le serie (Netflix, Prime ecc.) che però secondo alcuni osservatori vanno già perdendo a loro volta la spinta propulsiva e creativa di qualche anno fa. Da queste considerazioni molto generiche vorrei partire per offrire alcuni spunti che potrebbero risultare curiosi, se non utili.
Parto da Walt Disney, che negli ultimi cent’anni (non uno scherzo) è stato uno dei grandi catalizzatori di energie narrative. Disney ha regalato al mondo un prototipo della letteratura poliziesca (Topolino) e due immensi personaggi tragici come Paperino e Zio Paperone, rubando quest’ultimo a Charles Dickens. Nel mondo di Disney, notoriamente, non esistono padri, madri e figli, ma solo zii, zie e nipoti. Questo non è vero solo per Disney, ma anche per molti capolavori coevi, come per esempio Braccio di Ferro. La ragione di tutto questo appare semplice: la famiglia è ancora un’istituzione sacra, e non può presentare la paternità nei panni di un papero presuntuoso e pasticcione o avido e spesso cinico. Per Qui, Quo e Qua è meglio rassegnarsi alla condizione di orfani. La crisi c’era, naturalmente (non esiste racconto, non esiste epoca senza crisi), ma si trovava altrove: crollo finanziario, proibizionismo, Al Capone, trovatelli e via dicendo. Nella letteratura propriamente detta la tendenza era la stessa. La famiglia compariva, naturalmente, ma sempre o quasi in chiave di dissoluzione tragica (come in Faulkner, erede credibile dei Tragici antichi) o in chiave sociale (pensiamo ai dissidi razziali di Harper Lee o di Erskine Caldwell, o alla grande Letteratura di guerra, anche di casa nostra). Più in generale, l’immagine stessa dello «scrittore» è quella di un uomo che non ha famiglia, che vive una vita piena di trasgressioni, di vagabondaggi di ogni tipo, spalancata – da Hemingway a Pavese a Camus a Beckett ecc. – sull’aspetto pericoloso, o aleatorio, o assurdo dell’esistenza.
In anni più vicini a noi le cose cambiano. I Simpson e i Griffin accompagnano una narrativa in cui la famiglia entra in scena. Ossia, entra in crisi. Ce ne parlano alcuni grandi romanzi tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, come Le correzioni di Jonathan Franzen o Canada di Richard Ford. Specialmente nelle Correzioni (che condensano e superano tutta una letteratura piena di padri violenti e stupratori, madri piene di lividi e figli e figlie disadattati), la famiglia viene passata al microscopio in modo inedito: non più per raccontare la decadenza di una dinastia, o una saga, o una crisi di valori, ma per osservare una difformità genetica. In altre parole, non «il fallimento di una famiglia», bensì «la famiglia come fallimento» in sé stessa. Ma il fallimento della famiglia conduce dritto dritto al fallimento dell’io, perché, ci piaccia o no, è nella famiglia che prende avvio l’educazione affettiva di un individuo, e quello che chiamiamo l’io non può essere considerato al di fuori della sua natura affettiva, così come non si possono studiare gli animali se non dentro il loro ambiente. In altre parole, gli ultimi decenni ci hanno lentamente trasformato, ai nostri stessi occhi, in una sorta di animali dentro lo zoo, costringendo l’invenzione a ripiegarsi sull’autobiografia, sull’auto-fiction, perché il nostro io è a pezzi e bisogna raccoglierlo febbrilmente, mentre per fare letteratura fantastica, sia pure tragica, è necessaria una certa chiarezza su sé stessi, è necessario – per usare la metafora aristotelica – avere già mangiato, essere sazi, avere una casa solida, che non è un rifugio ma una certezza ragionevole, non una comfort zone (dove ci si ripara dal mondo), ma un punto preciso da cui partire con quella quota di calma che ci è necessaria per dare un senso anche alla nostra irrequietezza, affinché questa non si trasformi in panico.
Questa mi pare una delle radici dell’invasione di libri a vario titolo autobiografici, taluni bellissimi, e di quello che potrebbe apparire come il tramonto del racconto di invenzione. Forse tutto questo non è definitivo, forse tra dieci anni l’invenzione rinascerà «più bella e più superba che pria» e le sentenze di tutti coloro che cercano in una tendenza qualcosa di definitivo saranno smentite. Non lo sappiamo, meglio in ogni caso lasciare tutte le porte aperte.
La cosa interessante è che tutta la narrativa odierna (compresi i dinosauri come me, che amano la finzione) appare come un enorme urlo di fronte a un’epoca che ha smarrito il senso dell’affettività e quindi dell’educazione, che non è formazione, non è dressage, addestramento. «Educazione» è lo sviluppo dell’uomo adulto a partire da un centro affettivo. Il nostro tempo ha dichiarato guerra a questo tema perché, come diceva un vecchio film, la solitudine e lo smarrimento rendono un uomo più controllabile e governabile. La cultura del nostro tempo, rispetto alla quale mi sento straniero, cerca con mille allettamenti di rendere desiderabile questa solitudine. Ma, come diceva Giovanni Testori, una cosa è «cultura» e un’altra è «arte» o «letteratura». E la letteratura, talora selvaggiamente, talora irrazionalmente, continua – spesso ben oltre le intenzioni e le opinioni personali degli scrittori – a lanciare questo grido d’allarme, a dispetto delle mode culturali: noi non siamo, noi non vogliamo, noi non possiamo, noi non dobbiamo essere soli.