il Giornale, 19 febbraio 2022
Le guerra dei brevetti
La proprietà intellettuale è un furto o un risarcimento. Il governo di Pechino non nasconde più il suo volto alle aziende occidentali. L’illusione del grande mercato orientale da colonizzare è svanita da tempo. La preda è in realtà il cacciatore. Il messaggio di Xi Jinping è: qui le regole le facciamo noi e voi non troverete neppure un tribunale a cui appellarvi. Un aspetto che svela bene come funzionano le cose è quello dei brevetti. La Ue ha appena presentato una denuncia all’organizzazione mondiale del commercio, il Wto, per tutelare le imprese europee dallo scippo di tecnologia.
La storia è questa. Le compagnie cinesi copiano i brevetti occidentali e si rifiutano di pagarne i diritti. Questo accade in particolare nel settore dell’intelligenza artificiale, del 5 G e dei telefonini. Quando le aziende si sono rivolte a un giudice hanno trovato solo porte chiuse. C’è stato un tentativo di mediazione. I marchi europei si sono impegnati a concedere le licenze a «condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie». Non è cambiato nulla, anzi le cose sono peggiorate. La Corte suprema, nell’agosto del 2020, ha stabilito che i tribunali cinesi possono vietare ai titolari di brevetti di rivolgersi a una corte straniera. È un provvedimento giuridico conosciuto come anti-suit injunction, una inibizione a pretendere giustizia. Chi si ostina viene condannato a pagare 130mila euro al giorno. In meno di due anni sono state multate già quattro aziende. Se poi la legge non risulta abbastanza convincente ci pensa direttamente il governo, che fa pressioni e «minaccia» le imprese europee che esportano in Cina. È un modo molto convincente per chiarire i rapporti di forza. Ora il Wto può anche decidere che tutto questo sia ingiusto, ma il problema è come far applicare la sentenza. Il sospetto è che l’Europa, sempre più vaso di coccio, possa stracciarsi le vesti e ottenere una bella rassicurazione ma è difficile immaginare un passo indietro di Pechino.
Questa storia non è solo uno dei tanti capitoli di una guerra commerciale che il vecchio continente sta perdendo. È anche la fotografia del nazionalismo cinese, di cui il partito comunista ormai incarna valori e rivendicazioni. È, per capirsi, lo stesso spirito che fa dire a Xi Jinping che il ritorno di Taiwan sotto il potere di Pechino è una priorità assoluta. Non è qualcosa che si può mettere in discussione. Le radici di tutto questo sono lontane e risalgono al 1898. Non è un caso che buona parte dei «ladri di brevetti» risiedano nella regione iper tecnologica dello Shandong. È lì che scoppiò la «rivolta dei Boxer». Per gli europei quello scontro di civiltà è uno dei passi del colonialismo, per i cinesi è ancora ricordata come una sorta di apocalisse. È il tramonto di una civiltà millenaria. È una ferita umiliante che gli anni non hanno mai sanato. È un filo rosso sangue che attraversa la rivoluzione maoista e va al di là delle ideologie. È lì, nello Shandong, la terra dove è nato Confucio, che l’impero celeste si è ritrovato in ginocchio davanti ai barbari. Gli intellettuali vicini al segretario del partito comunista non hanno mai smesso, in questi anni, di evocare la vendetta per quella guerra perduta. La rivolta dei Boxer fu la reazione all’influenza culturale e economica delle missioni cristiane e delle compagnie mercantili europee, che con il loro arrivo stavano cambiando la società tradizionale cinese. A guidare la ribellione c’erano delle società popolari chiamate Yihetuan, gruppi di autodifesa della giustizia e della concordia. I capi erano per lo più maestri di kung fu, che gli europei ribattezzarono pugili. La Cina fu sconfitta e dopo la Grande Guerra fu di nuovo umiliata con i trattati di Versailles che regalarono lo Shandong al Giappone. Gli studenti sfilarono a piazza Tiananmen contro la debolezza del governo cinese. Era il 4 maggio 1919 e tra i leader dei manifestanti c’era Mao Tsê-tung. È da lì che viene la vendetta di Pechino.