Il Messaggero, 19 febbraio 2022
Torna in libreria Arancia Meccanica
Anthony Burgess sentì per caso l’espressione sballato come un’arancia ad orologeria mentre, seduto al banco di un pub londinese nel 1961, tracannava birra, ragionando sul titolo da dare al romanzo che aveva in mente di scrivere. Capì subito che quella frase, tipica dello slang cockney dell’epoca, e che letteralmente voleva dire essere fuori di testa, era l’unico titolo possibile per rappresentare lo spirito del giovane delinquente Alex e narrare la sua parabola. La parabola di un quindicenne i cui principali interessi erano il sesso, l’ultraviolenza e Beethoven. Scrittore prolifico, John Anthony Burgess Wilson non pubblicò il suo primo romanzo fino all’età di quasi quarant’anni. Nato e cresciuto a Manchester, in Inghilterra, ha trascorso la maggior parte della sua vita adulta all’estero nell’esercito prima di insegnare in Malesia con il British Colonial Service. Diagnosticatogli un tumore al cervello nel 1960, Burgess iniziò a scrivere a un ritmo frenetico nella speranza che i diritti d’autore dei suoi libri avrebbero sostenuto sua moglie dopo la sua morte. Scrisse in un anno ben cinque romanzi e quando, in seguito, scoprì che la sua condizione era stata diagnosticata erroneamente, continuò a scrivere e pubblicare romanzi a un ritmo rapido.
IN SORDINA
Sebbene ne abbia scritti quasi quaranta, il suo lavoro più famoso è sicuramente Arancia meccanica, uscito in sordina nel 1962. Se è vero che quel romanzo fu poi cannibalizzato dal film del 1971 di Stanley Kubrick è vero altrettanto che fu anche grazie al successo riscosso dalla pellicola il motivo per cui, in seguito, diventò un classico della letteratura distopica mondiale. Oggi Einaudi riporta in libreria, a sessant’anni esatti dalla prima pubblicazione, una nuova edizione del libro, con una traduzione di Marco Rossari, a cui sono aggiunti testi inediti dello stesso Burgess, una prefazione di Martin Amis e un ricco glossario.
Ambientato in un imprecisato futuro in una città che può essere considerata un mix tra Manchester, Leningrado e New York, Arancia meccanica narra le vicende di un gruppo di giovanissimi dediti ai saccheggi, alle aggressioni, agli omicidi, alle mutilazioni, ai pestaggi e agli stupri, attraverso una prosa scattante, rapida, lisergica, senza soluzione di continuità. Centrale nel romanzo è l’estrema sperimentazione linguistica che Burgess portò al limite, inventandosi un linguaggio chiamato nasdat, che nient’altro era che un esplosivo intruglio composto da termini tratti dall’inglese colloquiale e dal russo, il tutto arricchito da una serie di parole inventate di sana pianta. La nuova traduzione Einaudi di Rossari punta l’accento proprio su questo elemento, riscrivendo l’opera dal principio e dandole nuova vita. La rissa è chiamata britta, il rasoio bitto. La testa gulliver, la ragazza devoccia. I vecchi sono gli stardi, la prigione di stato prista. L’amico è chiamato drugo, il latte più si trasforma in moloko, e così via. Nel nasdat, parola che in russo significa adolescente, tutto sembra creato apposta per offrire la possibilità di esprimere al meglio gli eccessi e le devianze di Alex e dei suoi drughi, definendo immediatamente quello che sono e contemporaneamente rendendoli immortali per l’eternità.
Una parte della critica sostiene che Arancia meccanica senza la spinta propulsiva dettata dal linguaggio non sarebbe considerata oggi quello che è, dimenticandosi forse che, quando apparve sugli scaffali delle librerie nel 1962, si era ben lontani sia dalla beatlemania che dalla minigonna di Twiggy, (che aprirono di fatto gli Swinging Sixties), e non considerando, inoltre, che Burgess anticipò il diffuso panico morale sulla violenza e la delinquenza giovanile, che raggiunse il suo apice con il celebre scontro fra i mods e i rockers sulla spiaggia di Margate nel 1964.
L’ARRESTO
Ciò che però rende il romanzo ancora oggi tremendamente attuale e spiega il motivo per cui, a sessant’anni di distanza, siamo ancora fuori per Arancia meccanica, è la parte in cui Alex, tradito dai suoi stessi amici, dopo l’ennesima scorribanda, viene arrestato e, per evitare il carcere, decide di sottoporsi alla famigerata Cura Ludovico. Un trattamento sperimentale rieducativo che, tramite la somministrazione di un mix letale di farmaci e dosi massicce di immagini e filmati di violenza e degenerazione, induce il soggetto ad una insopportabile repulsione fisica nei confronti di tutto quello che in generale possiamo considerare il male. Ed è qui che Burgess rende il proprio romanzo politico, muovendo una critica alla società che, in nome del controllo del potere, cerca di limitare la libertà dell’individuo, togliendoli la facoltà di scelta. «Non lo so quanto libero arbitrio sia davvero in nostro possesso», scrive nella postfazione del libro, «ma so che quel poco che sembriamo avere è troppo prezioso per annichilirlo, per quanto benevole siano le intenzioni del fautore». Disarmante è oggi notare quanto visionario fosse stato il pensiero di Burgess, se riferiamo il tutto ai giorni nostri, in un tempo in cui ognuno di noi è, volente o nolente, sottoposto alla forzata Cura Ludovico, costretto a vedere senza ottenere spiegazioni. Con il muso perennemente schiacciato di fronte ad uno schermo di un computer o di in telefonino.