il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2022
Intervista ad Ale e Franz
Cari Ale e Franz, non è che sia a distanze davvero siderali…
(In coro) Il nostro asteroide? È su una galassia non ancora scoperta.
Bugiardi. L’Alefranz 15379 è in orbita tra Marte e Giove.
(A) Io non c’entro. È stato un amico di Franz, l’astronomo Paolo Chiavenna, a battezzarlo così, nel 1997.
(F) Ale continua a dare la colpa a me perché teme che un giorno cada sulla Terra e distrugga il Canada. O che si scopra che l’asteroide è tassato.
(A) Oddio, una patrimoniale. Di sicuro c’è l’Imu spaziale da versare.
Non finiremo come su Don’t look up, spero. Ma sull’elenco degli asteroidi, a quel nome si legge “popular Italian comedian duo”.
(F) Eppure non abbiamo molti fan tra gli alieni.
(A) Non ancora.
Fate coppia da trent’anni. Fu colpo di fulmine?
(A) Frequentavamo entrambi il Centro Teatro Attivo, una scuola di Milano. Franz era alle prese con un lavoro di Woody Allen, al regista serviva qualcun altro che facesse una piccola parte, buttarono dentro me.
(F) Una spalla.
(A) Argh, in effetti…
Siete stati costretti a sopportarvi?
(A) Ma no, siamo ancora buoni amici. Non saremmo durati, se non avessimo coltivato lo stesso desiderio, i medesimi progetti. Li ammucchiamo nel cassetto. Non ci ha costretti il medico a frequentarci.
(F) Siamo autori a doppia firma, scriviamo gli spettacoli così come gli spazi da Fazio. Non è che uno abbia voglia di smarcarsi. Ci manca solo di fare le vacanze in coppia.
Però il calcio vi fa litigare.
(F) Ogni tanto arriva qualche buona notizia. Il ko dell’Inter l’altra sera in Champions.
(A) Sì, ma che bello controllare il calendario della Coppa e vedere che il Milan non ha impegni.
La serata più traumatica della vostra carriera?
(F) La prima. Un disastro.
(A) Fu imbarazzante. Ingaggiati da un pub sperduto nelle risaie vercellesi. Avevamo preparato un pezzo complesso, fisico, teatralmente impegnativo. Ma c’era una festa di ragazzi. Non smisero un attimo di fare chiasso.
E?
(A) Poco dopo l’inizio il proprietario ci chiese di fermarci. “Andate via, non siete capaci”.
Un trauma.
(A) E dire che erano gli anni del boom del cabaret. La cui coda ci portò a Zelig.
(F) Non siamo più tornati in quel pub. Ma dovremmo. Per farci pagare il cachet.
Vi capita di sognare la platea vuota?
(A) No, il mio incubo è di salire sul palco e non ricordare le battute, mentre naturalmente nel sogno Franz sa tutto.
(F) Tranquillo, è il mio stesso incubo. C’è sintonia onirica.
Nel caso sciagurato, sapreste improvvisare.
(F) I nostri spettacoli sono scritti al 90 per cento, poi magari dopo cinquanta repliche trovi il guizzo e cambi battuta lì per lì. Il bravo attore va su un copione fisso facendo credere che stia improvvisando.
Siete in tournée con Comincium. Che si prova a tornare in scena dopo la peste?
(F) La tremarella. Per l’emozione di condividere con il pubblico, dopo tutto questo tempo cupo, un rituale e gli spazi ai quali eravamo disabituati.
(A) I lockdown ci hanno insegnato a godere di nuovo per cose che prima davamo per scontate. Che bello il teatro, quando si riapre il sipario.
In Comincium sbucate sul palco e fingete di ignorare l’esistenza del pubblico.
(F) C’è una scala, ci saliamo come se dovessimo posizionare bene un faro.
(A) Rimettiamo a posto.
Si ride molto, ma non c’è più il mood sociale per il ficcanaso che rompe le scatole a uno sconosciuto sulla panchina.
(F) Quei personaggi oggi sarebbero inverosimili. Ti siedi accanto a uno che legge il giornale, quello si sente in pericolo, si alza e se ne va.
Si canta, anche.
(F) Piuttosto male, ma ci perdonano. Anche perché le canzoni sono suonate dal vivo da un chitarrista mostruoso come Luigi Schiavone, che di solito lavora con Enrico Ruggeri.
(A) Proponiamo le perle di Gaber, Jannacci, la Ma mi di Strehler. La Milano in cui siamo cresciuti.
Di questi miti avete frequentato solo Enzo.
(F) Fummo coinvolti da Fazio in uno speciale Rai su e con Jannacci. Un genio che mischiava generi e forme d’arte con leggerezza.
(A) Metteva insieme cantautorato, surrealismo, poesia. Con messaggi profondi. El purtava i scarp del tennis. Non fermarti se vedi un barbone morto per strada, vai a lavorare e non perder tempo.
La satira deve essere sempre feroce e cieca?
(F) Attacchiamo l’eccesso di politically correct, ma a noi non piacciono le parolacce né che si oltrepassino i limiti quando si parla di malattie o disabilità.
(A) La satira deve scuotere, non ferire. Se lasci cicatrici sulla pelle altrui hai fallito.