il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2022
I Marchini, quando l’arte si fa “storia”
Il 23 aprile 1959, chiunque a Roma – o altrove – si interessasse d’arte aveva un impegno irrinunciabile: l’inaugurazione de La Nuova Pesa, la galleria d’arte che il mecenate Alvaro Marchini aveva aperto al 99 di via Frattina. Per l’occasione, in vista della grande affluenza, la strada era stata chiusa: erano attesi Lucio Fontana, Renato Guttuso, Carlo Levi – le cui opere erano esposte –, e ancora Moravia, Pasolini, Morante. Ancorché quelli fossero tempi vivaci per il mercato dell’arte, era un’altra la ragione di tanto clamore. Già dal nome, infatti, la galleria voleva dare una stoccata a quanto stava accadendo. Conclusosi il secondo conflitto mondiale, una nuova polarizzazione di fronti non armati, ça va sans dire, ma artistici animava il dibattito: in due parole, il nuovo e il vecchio. O meglio: da un lato, il desiderio di rispondere al rinnovamento dell’arte mondiale con l’astrattismo; dall’altro, l’impegno dei figurativi a far sposare il realismo con una posizione civile. Posizione scomoda, quest’ultima, che spesso li portò a esser messi da parte. Marchini, perciò, attorniato da Guttuso e altri figurativi, voleva dare un nuovo peso all’arte, un valore che passava attraverso l’impegno politico. Imprenditore edile, ex partigiano, decorato per i meriti nella Seconda guerra, antifascista convinto, l’agone ruscellava nelle vene di Marchini, tant’è che negli scantinati dei palazzi che costruiva, nacquero a metà degli anni ’30 le tipografie clandestine che stampavano i volantini contro il regime, nonché il quotidiano l’Unità.
È questa la trama che anima in controluce l’intensa mostra Una Storia nell’arte. I Marchini, tra impegno e passione (a cura di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Gianni Dessì, Flavia Matitti, Italo Tomassoni, visitabile fino al 22 aprile) che trova nell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma il suo genius loci. E non solo perché dalla sua fondazione nel 1593, l’Accademia vuol elevare l’impegno degli artisti, ma soprattutto perché come nei migliori romanzi, e dunque nella vita, sono anche qui le relazioni impreviste tra il patrimonio accademico e le opere esposte a morderci durante il cammino.
Così, in mezzo ai volti seicenteschi e imparruccati di membri della prima ora quali Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Cherubino Alberti e Pietro da Cortona, spunta un sulfureo Autoritratto verde (1930) del pittore e scrittore partigiano Carlo Levi. E ancora, vedutisti e paesaggisti da Grand Tour dialogano con l’inquieto scenario urbano di Periferia di Renzo Vespignani (1958), l’amorfo e oscuro Palazzone di Titina Maselli (1952), i neorealisti Tetti di via Leonina di Guttuso (1962-64) o il lussureggiante Paysage de Vallauris di Picasso (1958). Così come i corpi appassionati di Giuditta e Oloferne di Giovanni Battista Piazzetta (1730) o l’Atleta Trionfante di Francesco Hayez (1813) si specchiano nelle figure stilizzate de Gli amanti di Osvaldo Licini (1953), nell’erotica Ragazza sul Golfo di Guttuso (1933), che ci offre i suoi seni. E che dire del putto reggifestone di Raffaello, la cui felicità si schianta contro la rassegnata povertà della bambina che gioca con le pietre ne I sassi di Fausto Pirandello (1938).
Ma questa storia, che poteva interrompersi alla morte di Alvaro Marchini nel 1985, sopravvive nell’arte e prosegue nell’impegno della figlia Simona (nota attrice e regista, oltre che gallerista) e nelle opere della sua nuova Nuova Pesa – da Giuseppe Salvatori a Toti Scialoja, da Carla Accardi a Rebecca Horn – che abbraccia il passato come fanno le due torri-verme che s’intrecciano e si baciano in L’amour di Magritte (1949).