ItaliaOggi, 19 febbraio 2022
A parità di merito uno studente cinese ha 4 volte meno probabilità di entrare a Harvard di un nero
Stephen Breyer è il più simpatico ed arzillo giudice della Corte Suprema, che non dimostra assolutamente i suoi 84 anni, e dopo 27 passati al vertice della giustizia americana decide di dimettersi. Nominato da Bill Clinton nel 1994, con questa dimissione regala a Joe Biden l’opportunità di adempiere ad una delle più woke promesse elettorali: rimpiazzarlo con una giudice nera. I democratici avevano subissato di critiche Ruth Bader Ginsburg che, invece di dimettersi durante la presidenza Obama e consentire l’elezione di un altro «liberal», aveva tenuto duro fino a quando gli 87 anni ed il cancro han consentito a Donald Trump di rimpiazzarla con una candidata repubblicana, Amy Coney Barrett. E prima ancora di Ginsburg, anche Scalia aveva ricevuto indebite pressioni affinché si dimettesse, in modo che il partito di turno potesse scegliere un sodale.
Adesso Breyer cede alle pressioni dei Dem, e lascia questa combriccola di sciamannati al loro destino. Siete frastornati da tutti i nomi che ho fatto? Quello che accomuna Breyer, Ginsburg, Scalia, Coney, è il rispetto delle istituzioni oltre l’appartenenza politica e la difesa della nostra costituzione, partendo dai principi di Gettysburg e concentrandosi su quello che è l’esperimento democratico americano.
In un paese con oltre 330 milioni di persone, di ogni provenienza, che professano ogni religione disponibile, ci sono altrettanti punti di vista differenti. Sono questi giudici i migliori difensori del nostro diritto ad essere liberi, a creare un governo della gente e per la gente. Nel suo discorso di commiato, Breyer ci ricorda che saranno i nostri nipoti ed i loro figli a vedere se questo esperimento che è la democrazia americana abbia effettivamente funzionato. Questo giudice è il portabandiera dell’ottimismo americano.
È quindi fondamentale che chi lo rimpiazza sia all’altezza del mestiere di guardiano della Costituzione americana e delle istituzioni statunitensi, che condivida gli stessi valori dei predecessori, a prescindere dalla loro appartenenza politica. Di conseguenza, il fatto che il prossimo giudice sia donna o uomo, nera, bianca, giallo o qualsiasi altra combinazione di inclinazioni e religioni, è assolutamente incidentale e di nessuna importanza. Trecentotrenta milioni di persone devono potersi fidare dell’integrità ed onestà dei giudici della Corte Suprema, non possono sospettare che siano stati scelti per sesso, colore o affiliazione politica.
A settembre la Corte Suprema si occuperà del fenomeno woke per eccellenza, l’affirmative action, ossia la politica delle università di scegliere i candidati in base al loro sesso e colore e non in base ai meriti accademici, sportivi o sociali, come da tradizione. Un gruppo di studenti cinesi, vistisi rifiutati da Harvard, che adotta questa affirmative action per vantarsi di avere una popolazione studentesca «diversa», si ritrova con altri studenti dell’Università della North Carolina (Unc) per abbattere questa politica discriminatoria. Questo caso è un esempio di disallineamento tra logica, legge e morale.
Harvard ed Unc hanno il diritto di farsi regole proprie per le ammissioni e privilegiare i neri rispetto ai gialli, o ai bianchi: la legge glielo consente. Sulla morale se ne discute, perché chiaramente ingiusto punire ragazzi e ragazze d’origine cinese e coreana che si son fatti il mazzo a studiare più di tutti, solo per il colore della pelle. A parità di voti e capacità, un ragazzo cinese ha quattro volte meno possibilità di entrare ad Harvard di un nero, ingiustizia in purezza.