ItaliaOggi, 19 febbraio 2022
Orsi&Tori
Prima consulente di McKinsey, poi assistente di Carlo De Benedetti (allora ribattezzato con l’accento sulla a, Passerà, vista la sorte dei suoi predecessori) e invece per tanti anni con l’ingegnere fino a diventare amministratore delegato della disastrata Olivetti e ancor prima amministratore delegato di Mondadori nel breve tempo in cui nella guerra di Segrate sembrava aver vinto il duo Caracciolo-De Benedetti; quindi il saluto all’ingegnere più finanziere del mondo per andare a fare l’amministratore delegato del Banco Ambroveneto, in tempo utile alla fusione con Cariplo; quindi, chiamato da Carlo Azeglio Ciampi a rifare Poste italiane spa (un vero capolavoro), tanto che viene richiamato a fare Banca Intesa, che riunisce Ambrosiano, Cariplo e Banca Commerciale italiana. Ma non si ferma: come ricorda Enrico Salsa, il grande torinese presidente e protettore del Sanpaolo, Banca IntesaSanpaolo non sarebbe nata senza
Passerà. Ma nel 2011 non esita a lasciare la sua creatura: quando nasce il governo presieduto da Mario Monti, accetta di andare a fare l’unica esperienza che non aveva fatto, quella di ministro, nel dicastero chiave dello sviluppo economico. Con la fine del governo Monti rimane apparentemente disoccupato, non si fa tentare dai partiti e aspetta l’occasione buona: la creazione praticamente da zero, grazie a una spac e un piccolo istituto emiliano, di una sua banca. Nome: Illimity, «banca oltre la forma». Ma non si ferma ancora e poche settimane fa ha lanciato b-ilty, una banca tutta digitale per le pmi e per i loro imprenditori, cogliendo con ciò due aspetti chiave: la digitalizzazione e il ruolo fondamentale in Italia delle pmi e dei suoi proprietari, vera struttura economica dell’Italia.
Caro Corrado, ma tu conosci le pmi, essendo stato sempre in grandi aziende e grandi banche? «In realtà le conosco da sempre e non solo perché sia all’Ambrosiano che a IntesaSanpaolo abbiamo sempre tenuto conto del ruolo fondamentale delle pmi per la struttura economica del Paese».
E allora, quali sono le ragioni per cui hai fatto una banca tutta per loro? «Potrei risponderti proprio perché sono importantissime, ma c’è di più. Sono importantissime ma hanno problemi altrettanto importanti e nuovi, che solo una banca totalmente dedicata a loro può contribuire a risolvere».
Perché, al Banco Ambrosiano e a IntesaSanpaolo non li risolvevate i loro problemi? «Non raccolgo la provocazione. Certo che ho cercato sempre di risolverli, con più che buoni risultati, ma oggi c’è una situazione diversa: 1) le regole bancarie sono molto più rigide; 2) ci sono e ci devono essere tanti strumenti nuovi e specifici per le pmi».
E che cosa ti sei inventato per aiutarle meglio con b-ilty, un business store per un milione di imprenditori, come recita il suo slogan? «Per esempio il Tutor. Insieme a tutto il resto, dedicato appunto a 1 milione di imprenditori, ci vuole tanto digitale, ma anche assistenza umana, perché una banca ha anche il compito di favorire il progresso e la figura che noi chiamiamo Tutor prende in carico le pmi e prima fa una loro valutazione e poi passa alla realizzazione dell’aiuto finanziario. Il Tutor si è dimostrato molto valido anche prima di b-ilty, perché già dopo tre anni in Illimity, la percentuale dei crediti cattivi è solo lo 0,7%. Ma poi per scendere ulteriormente di dimensioni e acquisire competenze di settore ci vuole la tecnologia e una tecnologia avanzata: per questo per quasi tre anni abbiamo investito, partendo dalla nostra piattaforma sia per il credito a breve che a lungo e l’assicurazione sul capitale. Tutto digitale, ma l’imprenditore non parla con una macchina perché c’è il tutor responsabile della tua relazione. Come Netflix se ti piace te ne servi, quando non ti soddisfa più, stacchi l’abbonamento. Quindi è oggettivamente una bella innovazione».
Insomma, sei convinto che il vero cuore dell’economia italiana siano le piccole e medie imprese e che ci volesse qualcosa di moderno per poterle far crescere finanziandole… «Sì, anche se ovviamente non è l’unico motore dell’economia italiana, ci mancherebbe. Però è vero: ho sempre toccato con mano che le piccole (e a maggior ragione le piccolissime) aziende non sono state servite bene. Perché è più difficile, perché con loro non si può applicare il meccanismo delle valutazioni standard dei bilanci. È talmente rilevante la competenza di settore che hanno, che occorre guardare anche a quella. E lo dico come proveniente da una famiglia di piccoli imprenditori, al di là dei miei ruoli manageriali e imprenditoriali. Queste aziende devono essere valutate con un altro modello e se riusciamo, come stiamo riuscendo, a usare questo meccanismo che altri forse non hanno non avendo avuto l’interesse a svilupparlo, realizziamo un modello imprenditoriale interessante per la nostra impresa ma anche molto utile al sistema in generale. Il nostro motto è “fare utili ma essere utili” e se riusciamo a portare credito a questo pezzo così importante dell’economia, come tu dici, sarà l’intera economia a beneficiarne».
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Non ti sfuggirà, caro Corrado, che l’altra faccia della medaglia delle pmi scarsamente finanziate, è l’impiego all’estero del 75% del risparmio italiano proprio per mancanza di aziende nelle quali investire… «Sì, certo, ma prima di arrivare al risparmio che non trova in Italia dove investire, credo che si debba ricordare un fatto: in realtà manca la volontà, anche politica, di creare i modi per finanziare le pmi. Quando da ministro ho introdotto i mini-bond e i fondi di credito, le piccole imprese non potevano fare altro che andare in banca. Adesso ci sono più possibilità: ci sono per esempio, i Basket bond, e noi li usiamo insieme ad altri numerosi strumenti. È una questione di volontà, in primo luogo una questione di volontà».
Cominciate allora a dare l’esempio… «Giustissimo. Noi ora lanceremo una serie di fondi: il primo lo abbiamo già lanciato con la nostra Sgr; i prossimi saranno fondi crossover sempre dedicati al mondo delle piccole imprese. Perché in questo modo togliamo l’alibi a chi dice che non ci sono strumenti per fare arrivare risorse al mondo delle piccole e medie imprese».
Secondo te, il potere politico fa abbastanza per le pmi? «La mossa decisiva dovrebbe essere quella fiscale. E non solo nelle pmi. Da prima che diventassi ministro che ero convinto della necessità di dare un premio fiscale significativo a chi metteva i soldi nelle aziende; bisogna premiare chi investe nell’economia reale, anche se non è facile. Invece è sempre stato più favorito fiscalmente il debito. Bisogna rovesciare lo schema. Il meccanismo può essere l’Ace, magari una SuperAce, che si può allargare. Ma non c’è dubbio che va privilegiato fiscalmente l’investimento invece del debito».
Il vostro target è un milione di aziende e altrettanti imprenditori. Quante pensate di portarne in quotazione? Perché è quello il mercato che interessa ai gestori del risparmio…
«Dal secondo semestre dell’anno scorso portiamo in Borsa aziende con grandissima soddisfazione. Ovviamente continueremo accelerando. E poi l’altra via è favorire le aggregazioni, attraverso le fusioni fra pmi, che vanno ugualmente agevolate fiscalmente. Questo è uno dei mestieri che facciamo nell’acquisition finance, aiutando aziende che ne comprano altre. Oppure finanziamo fondi o investitori che mettono insieme due o tre piccole aziende di un unico comparto per creare un minicampione nel settore. È una via che va molto favorita; tra l’altro, ne escono fuori espressioni di valore estremamente interessanti. E poi portare il nuovo aggregato in Borsa. E qui ci siamo accorti di quanto potenziale ci sia, perché aiutare una piccola azienda è cosa ben diversa che aiutare aziende già consolidate. Portare in Borsa fa parte del nostro mestiere e per questo abbiamo rafforzato l’investment banking e il capital equity market. Ma per essere bancabili o per andare in borsa oggi anche le pmi devono avere il passaporto rappresentato dal bilancio di sostenibilità, che purtroppo per vari imprenditori sembra una cosa inutile. Noi siamo in grado di aiutare le aziende ad avere quel passaporto».
Torno sul tema di prima: da banchiere, da imprenditore, da grande manager, da ministro, da creatore di una banca ex novo, non ritieni che si debbano prendere iniziative perché l’enorme ricchezza di risparmio italiano sia indirizzato allo sviluppo dell’Italia mentre oggi va per due terzi all’estero? «Ti aspetti che non sia d’accordo? Ma occorre che anche chi gestisce il risparmio italiano, le grandi società di gestione, portino risorse di capitale o anche di debito alle pmi».
Hai ragione. Negli Usa i fondi di debito superano i mille miliardi di dollari. In Italia non arrivano a 10. In più ritengo che tu condivida la necessità di far arrivare a mille, 2 mila le pmi quotate in borsa. Ma a questo proposito, c’era un incentivo fiscale di 500 mila euro per le spese di quotazione e, in mezzo a tutti i bonus, è stato dimezzato… Ma serve anche far sì che l’ex-Aim, l’Euronext Growth Milan(o) diventi liquido. Ci vuole un fondo di liquidità, magari costituito da Cdp e da tutte le banche che portano pmi in quotazione a quel mercato… Il governo Draghi secondo te prenderà queste iniziative a favore del capitale investito in economia reale? «Deve, deve essere compiuta una svolta sia appunto per questi mercati, per renderli più liquidi, ma anche proprio per i fondi che investono. Ma veramente, non a parole, come è avvenuto più volte in passato per le pmi».
Un visionario come Ennio Doris, quando furono creati i Pir, disse: faremo uno sviluppo straordinario. Poi i Pir sono stati modificati, li hanno riaggiustati, ma sono pieni di limitazioni e comunque, senza pmi che si quotano a centinaia ogni sei mesi, non c’è materia dove investire… «Sì sì sì sì, è proprio così, purtroppo».
Il Pnrr può aiutare lo sviluppo delle pmi? «Il Pnrr è stato ben congegnato, ma ancora non è chiaro come gli investimenti potranno arrivare alle pmi. Peraltro, va sottolineato che i fondi Pnrr equivalgono a circa 30-50 miliardi all’anno. Molti si dimenticano che sotto altre forme, da anni il sistema Italia ha a disposizione 150 miliardi all’anno di fondi pubblici nazionali ed europei da investire. Che fine fanno? Sarei felice che il rigore applicato al Pnrr venisse immediatamente esteso anche per questi 150 miliardi annuali. Occorrono semplificazioni e per la parte di investimenti privati occorre un premio fiscale, come è avvenuto per quello industria 4.0, perché è con gli investimenti che si fa sviluppo e si accresce la produttività».
Non temi l’inflazione? «Ci sono scienziati in tutto il mondo che se ne occupano, figurati se posso dire io qualcosa di originale. Comunque, l’inflazione in parte può essere utile in questo particolare contesto, ma dimentichiamoci di questo aspetto. Ci sono invece dei fattori dell’inflazione attuale che vanno curati in maniera diversa: 1) lo spike dei consumi dopo la pandemia, che rientrerà da solo; 2) il price change e anche questo con il tempo può rientrare da solo; 3) la scarsità di materie prime e poi l’energia, che dipende da fattori geopolitici da gestire con abilità. Il fatto importante è che non si pensi di poter curare tutto con una politica monetaria di colpo o eccessivamente restrittiva, perché così si rischierebbe di avere inflazione e recessione».
C’è una cosa importante che avevi fatto da ministro e che riguarda un fenomeno che sta per esplodere, la crisi di molte aziende… «Sì, feci il concordato in continuità…».
Un giudice-santone ha fatto la controriforma con il nuovo codice della crisi, arrivando a stabilire che perfino nelle srl c’è una responsabilità patrimoniale personale degli amministratori. Ora è sospesa per il Covid ma intanto centinaia di amministratori stranieri hanno abbandonato i consigli d’amministrazione… «Tutto quello che avevo fatto poteva e può essere migliorato, ma ricordiamoci che sui bilanci delle banche ci sono 250 miliardi di crediti in Stage 2 (che si stanno deteriorando, ndr). Poi ci sono le moratorie. Ecco, pensiamoci bene prima di immettere strumentazioni o vincoli troppo gravi per la gestione delle situazioni difficili secondo il Codice della crisi. L’Italia deve attirare investitori, deve attirare imprenditori. L’ideale sarebbe arrivare al Chapter 11 americano. Ma chi sa quando».
Due ultime domande. La prima: dell’esperienza come ministro che ritorna poi all’attività economica, che cosa ti sei portato dietro di significativo? «Io mi sono portato a casa la convinzione che si possono fare tante cose velocemente e bene. In poco più di un anno: la prima normativa, quella del concordato in continuità, fatto peraltro col ministero della Giustizia; la legge sulle start up; la liberalizzazione del credito; la liberalizzazione del gas e il piano strategico sulla Cina per la prima politica strategica nazionale; il riordino degli incentivi con la chiusura di 42 inutili leggi complicate, creando il fondo che ha reso poi possibile fare interventi tipo Industria 4.0; 50 miliardi di progetti infrastrutturali sbloccati e finanziati… È un po’ una scusa dire che le cose non succedono per mille impedimenti. E anche il tema della burocrazia che blocca… Certo, che la burocrazia sia inefficiente è vero, figurati lo viviamo noi, tutti lo viviamo per i tempi di certe autorizzazioni. Ma ho visto che se hai un po’ di visione poi trovi gente che ti segue, c’è gente in gamba anche nella burocrazia dei ministeri: avevamo credo 620 decreti attuativi da fare, ereditati dai governi precedenti, più tutti i nostri; li abbiamo praticamente emessi tutti; sembrava impossibile invece ci mettevamo lì tutti i lunedì mattina, tampone rosso – tampone arancione – tampone verde su ciascuno dei decreti attuativi e alla fine li abbiamo sbloccati tutti. Quindi, se mi chiedi in sintesi che cosa ho portato a casa, è la convinzione che si può. Non è vero che non si può».
Ma ora, è meglio occuparsi delle piccole e medie imprese di una banca innovativa piuttosto che essere candidato a fare l’amministratore delegato delle Generali? «Questa domanda potevi risparmiartela. Per questo ti rispondo così: non lascerei quello che sto facendo per nulla al mondo». (riproduzione riservata)