la Repubblica, 18 febbraio 2022
Elvis secondo Luhrmann
Elvis. Il mito e la tragedia americana di Presley secondo Baz Luhrmann. Dopo otto anni di lavoro, molte interruzioni per la pandemia, ecco le prime immagini che il regista e l’attore Austin Butler (che ha battuto Ansel Elgort, Miles Teller e Harry Styles) raccontano in collegamento da Sydney. Il film, in sala con Warner dal 24 giugno, esplora la vita e la musica di Presley, morto nel 1977 a 42 anni, attraverso la sua complicata relazione con il suo enigmatico manager, il colonnello Tom Parker, Tom Hanks: dall’ascesa alla fama mondiale, sullo sfondo del panorama culturale in evoluzione e della perdita dell’innocenza in America. Non un biopic, spiega Luhrmann: «Alcuni sono fantastici, ma Shakespeare non ha fatto la biografia di Riccardo III, Amadeus non parla solo di Mozart, affronta il tema della gelosia. Da giovane ero un fan di Elvis, ma oggi la sua vita mi consente di esplorare l’America degli anni 50, 60 e 70. Ha vissuto solo 42 anni, ma ci sono tre grandi vite e una mitologia intera in quel lasso di tempo. Una vita al centro della cultura di tre decenni».
Il trailer si apre con la voce narrante di Tom Hanks, qui nel ruolo del controverso colonnello Parker che ha ridefinito il concetto e il potere del manager nell’intrattenimento: «È facile concludere che sia il cattivo, ma lui racconta la sua versione, del resto Il grande Gatsby è in realtà la storia di Nick Carraway».
La voce del giovane Elvis è nelle canzoni è di Austin Butler: «Le registrazioni prima dei Sessanta non potevano essere usate, sono in mono, se mimi quella voce fai la fotocopia di un’esibizione – spiega Luhrmann – perciò abbiamo deciso di far ricantare a Austin il giovane Elvis per fonderlo con quello vero dai Sessanta. Con lui siamo stati a Nashville, nello stato di registrazione di Elvis con alcuni dei più grandi musicisti del mondo. Abbiamo studiato le sue esibizioni: Elvis sul palco era strano e scioccante, e la sfida era tradurre tutto questo per un pubblico contemporaneo. Volevamo una interpretazione, non una imitazione».
Aggiunge Butler: «Elvis aveva uno status sovramano, c’è voluto tempo per trovare l’uomo dentro l’icona». Il lavoro sulla voce è stato titanico, «volevo, ossessivamente, che una mia registrazione fosse indistiguibile con la sua, poi ho capito che dovevo liberarmi dai vincoli e cercare di vivere la sua vita nel modo più vero». L’esperienza più straordinaria è stata «cantare a Nashville con trenta artisti gospel: ho vissuto un’esperienza gloriosa e liberatoria». Nel film si racconta l’influenza del gospel su Elvis, si esplora la sua vicinanza alla cultura black. Del resto Luhrmann ha vissuto “dentro” il mondo di Elvis, come a Parigi aveva fatto per Moulin Rouge e come era entrato nella vita di Fitzgerald per Il grande Gatsby: «La musica e la cultura nera non sono una nota a margine, ma la tela su cui è scritta la storia di Elvis, cresciuto nella comunità. In Beale Street a volte era l’unica faccia bianca nel club. In quel momento sta emergendo il movimento per i diritti civili, lui diventa pericoloso». «Senza rivelare troppo – conclude il regista – vi dico che alla fine Elvis torna alla sua vera radice: al gospel. Era una creatura spirituale».