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 2022  febbraio 18 Venerdì calendario

Nascere schiavi in Perù

Immersi tutto il giorno in un mare pieno di petrolio, a 14 anni e per 18 euro al giorno. Il combustibile che penetra nelle sottili tute bianche, l’odore fortissimo che invade le narici e fa arrossire gli occhi, eppure si continua perché c’è da portare a casa qualche soldo per sopravvivere. Ci sono anche dei ragazzini nell’équipe di emergenza contrattata in tutta fretta dal gigante spagnolo Repsol per cercare di ripulire il disastro ambientale provocato dalla fuoriuscita di migliaia di barili di petrolio al largo di Lima, in Perù.
Disastro prima, approssimazione dopo; oltre al danno per la flora e la fauna marina si aggiungono ora i rischi per la salute di almeno duemila persone chiamate a ripulire senza nessuna preparazione le spiagge invase dalla marea nera.
L’incidente è avvenuto il 15 gennaio a bordo della nave petroliera “Mare Domicum”, della compagnia italiana Fratelli d’Amico, in servizio per conto di Repsol. L’imbarcazione stava attraccando nel porto de La Pampilla, la maggiore raffineria del Perù, ma al momento di scaricare i tubi subacquei si sono rotti e il petrolio è finito in mare. La portavoce di Repsol ha dato subito la colpa all’effetto delle onde giganti conseguenza dello tsunami di Tonga, ma numerosi testimoni hanno detto che il mare, a quell’ora, era tranquillo. Non è stata l’unica bugia. Per giorni è stato detto che in mare erano finiti poco più di mille barili di petrolio, ma poi è stato appurato che sono stati molti di più, oltre settemila.
Il petrolio è arrivato sulla Playa Cavero, a Ventanilla e poi in altre venti spiagge nei distretti di Santa Rosa e Ancon, non lontano dalla capitale peruviana. Una tragedia ambientale come non si era mai vista da queste parti, con la devastazione di uccelli e pesci morti, un mare nero che si perde a vista d’occhio. «La chiazza di petrolio che si è liberata in mare lo scorso 15 gennaio è andata verso Nord spinta dalla corrente – ha spiegato Luigi Alcaro, ricercatore dell’Ispra inviato in Perù per la protezione civile europea -. Dobbiamo concentrarci su questa zona perché ricca di uccelli che mentre pescano si imbrattano di petrolio».
Repsol non si è presentata alle udienze convocate dal Parlamento ma ha illustrato con comunicati il piano di contingenza; 2,5 chilometri di barriere gonfiabili messe in mare per limitare la chiazza, 90 macchinari disposte sulla costa e in mare, tra cui sette skimmer, pompe specifiche per aspirare il catrame dal mare, 1.500 persone assunte per i lavori di pulitura della spiagge. E qui che iniziano nuovi problemi; il personale impiegato non ha mai avuto a che fare con una situazione del genere. Contrattati a giornata, tra di loro anche minorenni, mandati a spalare e raccattare petrolio mescolato ad acqua.
I rappresentanti della Ong Oceana Perù sono andati a Playa Cavero e hanno filmato tutto; persone con pale, badili e secchi a spazzolare la schiuma nera lasciata sul bagnasciuga e metterla in fosse costruire all’inizio della spiaggia. «È assurdo – ha detto il direttore di Oceana Daniel Olivares -, gli inquinanti dovrebbero essere smaltiti altrove, alla prima marea tutto tornerà in mare». Il sito peruviano “Salud con lupa” ha spiegato i gravi rischi di contaminazione per i lavoratori. Uomini e donne e anche qualche ragazzino attratti dal compenso di 80 soles, meno di 20 euro. Ragazzi come Juan Ignacio, il nome è fittizio, che è venuto con suo padre «per poter pagare le bollette a fine mese».
Il petrolio con il sole diventa ancora più contaminante, causando seri problemi respiratori o alla vista. Anche i 300 uomini della marina peruviana corrono dei rischi, ma almeno loro hanno dispositivi di protezione più adatti, occhiali e caschi, non la tuta bianca di nailon e una bandana sulla testa degli altri. Repsol respinge ogni accusa, dice che ha assicurato il massimo di protezione a chi lavora, ma non ha nemmeno dato informazioni sui dettagli del piano di emergenza depositato nel 2015 per la raffineria di Pampilla, un porto già protagonista di 32 infrazioni e incidenti negli ultimi 13 anni. Avvisaglie di quello che sarebbe potuto succedere, ma nessuno ha mai fatto nulla.
La giustizia ha bloccato le attività dell’impianto, ma questo può causare un serio problema di approvvigionamento, visto che lì si raffinano 120.000 barili al giorno, pari al 54% della produzione nazionale del Perù. Il presidente Pedro Castillo si è recato sul posto e davanti alle telecamere ha tuonato contro la compagnia spagnola: «Repsol deve pagare per il danno che ha causato alla popolazione e deve riparare il disastro ambientale. Non importa se ci vorranno anni, devono pulire tutto questo enorme disastro».
Al momento, però, a soffrire è soprattutto chi sta cercando di pulire la chiazza nera, respirando e toccando il petrolio nelle acque dell’Oceano. —