il Giornale, 18 febbraio 2022
Un pool di prime donne che si detestavano
Gerardo D’Ambrosio detestava Borrelli. Borrelli, che un po’ subiva e un po’ usava Di Pietro, in cuor suo non se ne fidava né umanamente né professionalmente. Eccetera. Archiviato – grazie al cielo – il trentennale, e in attesa del quarantennale, cosa resta da dire dell’inchiesta Mani Pulite? Forse per capire come nacque e imperversò l’indagine su Tangentopoli manca, nelle lodevoli ricostruzioni di questi giorni, qualche sprazzo sul «fattore umano» che, come spesso accade, ebbe nelle tempestose vicende di quei mesi il suo bel peso. Lo ebbe nei comportamenti degli indagati, che io non conoscevo. Ma lo ebbe anche in quello degli indagatori: che invece ebbi modo di frequentare quotidianamente. E che mi fa un po’ impressione rivedere oggi, a trent’anni di distanza, alle prese con i guai e le rughe.
Con loro ci si dava del tu, con due eccezioni: Borrelli, cui ovviamente tutti davano del lei (tranne Chiara Beria, che però era figlia di un suo augusto collega), e Davigo. Di Pietro aveva un caratteraccio, diceva un sacco di balle, e infatti tra di noi lo chiamavamo lo «zanzone», l’imbroglione. Ma di fondo era un lineare, un buono e a suo modo un fragile, come dimostrano in parte le sue vicissitudini successive. Un pomeriggio, nella sua stanza, insieme a Maurizio Losa della Rai lo vedemmo scoppiare in lacrime senza motivo apparente: capimmo solo dopo che sulla sua testa si addensavano le nubi che poco dopo lo avrebbero costretto a dimettersi dalla magistratura. D’Ambrosio non poteva essere buono per definizione, perché nella cultura del Pci dell’epoca – forgiata nella Resistenza e temprata trent’anni dopo nella lotta al terrorismo – per i sentimenti non c’era molto spazio: ma era l’unico del gruppo a pensare che la politica avesse ruolo e dignità quanto la magistratura, e non a caso fu l’unico a tenere fino all’ultima la porta aperta al rientro di Bettino Craxi dall’esilio.
Gherardo Colombo era e resta un moralista cattolico, ma proprio questa sua matrice lo portò all’epoca a esporsi con coraggio proponendo una soluzione politica che – se fosse stata accolta – avrebbe cambiato il corso dell’inchiesta; e lo ha portato di recente a una sincera resipiscenza. Francesco Greco non amava mandare la gente in galera, e forse anche per questo scelse di curare la parte economica dell’indagine, dove il ricorso alle manette era meno fisiologico. Ho stima di lui, e credo che si sia pentito di avere chiesto e ottenuto la guida della Procura di Milano, con tutto quello che ne è seguito nel gigantesco pasticcio del caso Eni e della loggia Ungheria.
Erano tutti permalosi, non amavano le critiche e i dissensi. Per questo Fabio De Pasquale, che era un giovane e ambizioso pm, restò sempre fuori dal pool, viaggiando per la sua strada che lo portò per primo a far condannare Craxi, ma che porta ancora oggi a associare il suo nome alla morte in carcere di Gabriele Cagliari. Anche con lui mi davo del tu, ma mi ha tolto il saluto (e querelato) dal 1995 perché scrissi che si era fatto sfuggire un serial killer. È in buona fede ma è animato da una assenza di dubbi che sta alla base dei suoi problemi recenti.
Fu questo cocktail di caratteri diversi a rendere possibile una offensiva giudiziaria senza precedenti. Borrelli, che era una mente superiore, rivendicava come proprio principale merito l’oculatezza con cui aveva assortito la squadra (ma anche lui fece un errore, cooptando Tiziana Parenti). Sui loro metodi si è discusso molto, e non li ho mai visti davvero disperati per il suicidio di un indagato. È valsa la pena di quel carcere e quei lutti, o era meglio tenersi la politica pagata dai Gardini, dai Romiti eccetera? Boh. Di sicuro, rispettando le regole non si sarebbe mai fatta Mani Pulite. Come è noto, la rivoluzione non è un pranzo di gala.