il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2022
Ci estingueremo come api
Camminate sullo stretto sentiero di un bosco. È scesa la sera, è iniziata la notte. Il buio e il silenzio, abbastanza impressionante per chi viene dalla città, inducono alla meditazione. Ma man mano che procedete e le vostre orecchie si fanno più attente sentite un rumore di sottofondo un po’ inquietante. Che cos’è? Acufene? O venite da una lettura recente di un racconto di Buzzati dove tutto, anche le più normali cose, assume un aspetto angosciante? O è forse il ronzio delle api che, anche nottetempo, stanno organizzando, in modo militare, il loro alveare con ordini precisi e inderogabili che riguardano le operaie, le infermiere, i fuchi destinati alla morte, sia quelli che perderanno la partita sia il solo che riuscirà a fecondare l’Ape Regina soccombendo subito dopo l’amplesso, o l’Ape Regina stessa? Ordini che nessuno ha dato, ma rispondono a quella che l’entomologo Jean-Henri Fabre ha definito “la Legge” e che noi chiameremo più semplicemente l’istinto.
No, quello che sentiamo in sottofondo non è il classico ronzio delle industriose api. È piuttosto un cric, crac, uno sbocconcellare di qualcuno, migliaia di qualcuno, nascosto nel tronco degli alberi o nelle loro radici.
Sono “i divoratori della foresta”, un cerambice eroe, cioè un tarlo, un cervo volante, uno scolito, una saperda, un sirice. Questi insetti, minuscoli, sbocconcellano il legno dell’albero o la sua cellulosa, sia per alimentarsi sia per trovare cavità più profonde dove starsene al sicuro. Sbocconcella un giorno, sbocconcella un altro, l’albero, dai e ridai, cadrebbe stecchito a terra. E in effetti qualche vecchio pioppo, abitato dalla saperda, ogni tanto crolla a terra, come ben sappiamo. Ma in linea di massima i boschi e le foreste rimangono intatti. Com’è possibile? È possibile perché questi insetti, e mille altri che si potrebbero nominare, hanno un antagonista, un parassita chiamato icneumone che distrugge i “distruggitori”. Se non esistesse l’icneumone, le piante, i boschi, le foreste, rase al suolo, non potrebbero mettere in atto la loro vitale funzione dello scambio fra anidride carbonica e ossigeno. E quindi senza il minuscolo icneumone non perirebbero solo le foreste ma anche l’uomo cui l’ossigeno è indispensabile come l’ossigeno.
Questa favoletta, che favoletta non è, ci racconta dello straordinario equilibrio con cui la Natura, di cui l’uomo fa parte, tiene se stessa (“un equilibrio sopra una follia” per dirla con Vasco).
“La Natura ci parla e sa” scrive Fabre. Ma è da quel dì che noi non ascoltiamo più la Natura. Da quando la rivoluzione scientifica del Cinquecento-Seicento (Copernico, Keplero, Galilei, Newton) ha innescato quella industriale di metà del XVIII secolo, razionalizzata poi nell’Ottocento dall’Illuminismo sia in versione liberista che marxista.
Da allora l’uomo è stato preso da una ubris, da un delirio di onnipotenza incontenibile, al cui centro c’è la domanda: che cosa dobbiamo fare per dominare tecnicamente la Natura e la vita? Ma che senso, e quale, abbia questo dominio la Scienza, come già notava Max Weber intorno al 1920 (Il lavoro intellettuale come professione), non ce lo dice, lo dà solo come presupposto, un “a priori” incontestabile. E invece un senso ce l’ha, purtroppo. Ed è quello di portarci il più rapidamente possibile, alterando costantemente i delicati meccanismi della Natura (che in realtà è la Tecnica che sovraintende a tutte le tecniche), verso l’autodistruzione.
La biodiversità (come peraltro ogni diversità) è fondamentale per la sopravvivenza dell’intero ecosistema. È stato calcolato, in modo ovviamente approssimativo, che le specie vitali, non solo animali evidentemente (perché tutto ciò che è vivo, che non è minerale, fa parte dell’ecosistema) fossero circa 11 milioni. Negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo distrutto l’83 per cento. Finora la Natura è riuscita a metterci, in qualche modo, una pezza. Di questo ciclo vitale le industriose api sono un elemento fondamentale e le api stanno via via scomparendo a causa delle pratiche agricole intensive, l’uso dei fertilizzanti, l’inquinamento e le elevate temperature dovute al cambiamento climatico. Tout se tient. Diceva Albert Einstein che il giorno in cui non ci saranno più le api sarà anche l’ultimo giorno della vita dell’uomo sulla Terra.