il Giornale, 17 febbraio 2022
Riscoprire Bette Howland
Dimenticata per anni dagli editori e dai lettori americani, è stata finalmente riscoperta Bette Howland (1937-2017), scrittrice che ha in comune con Lucia Berlin l’oblio e la grandiosità di scrittura: in Italia hanno appena pubblicato Storie di vite diverse (Sem, pagg. 408, euro 19, traduzione di Tiziana Lo Porto). Undici racconti che sono graffi sul vetro della vita, frammenti di esistenze al limite della nostra ordinaria follia: radiografie di una società dove «la soluzione all’isolamento è più isolamento», dove gli interni domestici diventano spesso inferni di vite arredate da un sogno americano ridotto a stracci.
Sono esterni di case alla periferia di ogni metropoli, in questo caso Chicago, dove dalla ferrovia si vedono bandiere dove ci sono più strisce che stelle, finestre con nastri di cellophane al vento come a dire «questa casa è abitata». Sono scenari, scritti dal 1962 al 1999, raccontati anche da John Cheever, Raymond Carver e anche dalla Lucia Berlin citata all’inizio che ne La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri) ha la stessa forza nel raccontare esistenze disperate perché sembrano subire la realtà mentre la vivono.
Sia i protagonisti della Howland che di Lucia Berlin hanno creduto in un sistema, hanno creduto ad occhi chiusi nel vero miracolo economico americano: non quello dopo la Grande depressione del 1929, non quello dei favolosi anni ’60, ma quello che sul finire degli anni ’70 ha promesso centri commerciali a tutti, trasferendo in quei megastore, ristoranti e bowling la vita sociale. Una vita sociale inscatolata, in cattività, mentre tutto attorno i negozi chiudono, le strade sono deserte, le tivù sono accese e le menti sono spente: ognuno nella propria casetta a proteggersi da un nemico che ha il volto efferato di una follia collettiva.
«Sono iniziate ad accadere cose che in passato non sono mai accadute: corpi richiusi nei bagagliai, sparatorie nelle stazioni di servizio, brutali omicidi che finiscono sui giornali di Chicago. Quindi potete immaginare il grande successo che hanno sulla stampa locale abituata alle notizie sulle vendite di torte in chiesa e sui falsi allarmi di incendi».
Perché tutti i racconti sono venati di ironia ed è questa capacità di sorridere davanti ai drammi, anche personali, a rendere Bette Howland un caso unico nella letteratura americana. La sua ironia non cade mai nella satira, nella ferocia, nella caricatura: è sempre misurata anche quando descrive la sua esperienza di ricoverata in un istituto psichiatrico. Per la Howland «la storia è melodia, ma l’arte è nell’improvvisazione, nel dare voce»: come nella Chicago che racconta, e dove è nata, il fraseggio del blues lascia il posto al jazz.
In Italia questi racconti sono stati molto ben accolti dalla critica, peccato che i contenuti e la scrittura siano stati oscurati da articoli dedicati più alla sua storia personale che alla sua bravura. Ci interessa sino ad un certo punto che sia stata l’amante di Saul Bellow, perché non sono i consigli di Bellow ad averle insegnato qualcosa, ma i suoi libri: «Chicago, quella città cupa», come scrive Bellow nella frase di apertura di Le avventure di Augie March ha influito più di mille pettegolezzi. La critica italiana l’ha ridotta, alla fine, ad una comprimaria, ad una amante con il vizio della scrittura mentre Bette Howland è stata una scrittrice con il vizio dell’amante. Il mondo che descrive, sia che stia raccontando della precarietà della classe operaia o dell’ansia ossessionata dal crimine della middle class, è carico di sentimenti potentemente intensi di rabbia, allarme e pietà – sentimenti resi sopportabili dall’intelligenza arguta e piena di risorse di Howland e dalla sua compassione rigorosamente non sentimentale.
Se il romanzo precedente W-3, ad oggi inedito in Italia e di prossima pubblicazione da Sem, è il commovente resoconto del soggiorno di Bette Howland nel reparto psichiatrico di un ospedale dopo aver ingoiato una manciata di sonniferi, tra le pagine di queste Storie ci dice poco della sua vita: è divorziata, ha due figli che vivono con il padre ed è una studentessa laureata all’università. A differenza della maggior parte degli scrittori contemporanei, non ci inonda di particolari intimi al minimo stimolo, ma si sofferma più sulle descrizioni della sua famiglia di indigenti e dei sobborghi operai di Chicago dove alcuni dei suoi parenti ancora vivono: ed è questo a dare un senso vivido del temperamento generosamente reattivo della scrittrice.
Un altro tema centrale è la vecchiaia perché «tutto acquista valore con l’età tranne una vita umana». Sensibile com’è al pathos della vecchiaia, è ammirevolmente insensibile alle sue tentazioni sdolcinate. Nella parte più coinvolgente del libro, un racconto ironico e toccante intitolato Servizi pubblici, ricorda con meravigliosa vitalità comica la biblioteca di quartiere dove una volta aveva un lavoro part-time al banco di consultazione. Qui i vecchi disperati di un quartiere semiabbandonato trovano il loro rifugio. Nella biblioteca, i malati si scervellano instancabilmente sul Dizionario medico, a caccia di parole che nobilitino le proprie sofferenze.
Sebbene Bette Howland scriva dei malati, degli indifesi, dei dimenticati, la sua Chicago è molto diversa dalla cupa vita metropolitana di uno scrittore come Nelson Algren, tra i padri del realismo americano, che ha scritto: «Amare Chicago è come amare una donna dal naso rotto». L’umanità descritta da Bette Howland è deragliata ma è come se tenesse stretta la città in un abbraccio inquieto ma affettuoso, come se fosse lo sfacelo dal quale ripartire per il sogno di una nuova America.