il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2022
I romanzi dei 40enni
“Per quanto si possa tentare di dimenticarli, alcuni momenti della vita emotiva di ciascuno di noi risultano indelebili. Il tempo agisce sulla memoria lasciando un segno”, scrive Marco Peano, classe 1979, editor Einaudi, in Morsi (Bompiani) che giunge dopo L’invenzione della madre in cui dava voce all’aspetto più intollerabile dell’umano esperire: separarci da ciò che amiamo, in quel caso la madre. Lo ripete anche qui, “diventare grandi significa imparare a dire addio”, crescere, “verbo del cambiamento, spietato e necessario” è morso che slabbra i contorni dell’infanzia e apre una voragine orrorifica sull’età adulta. Per orientarsi serve una bussola. Quella di Sonia saranno le parole, conoscere il nome delle cose salva, oltre al dubbio che tiene vigili. La storia, Shirley Jackson e Stephen King approverebbero, ambientata in un paesino piemontese fermo a cinquant’anni fa, in quel 1996 famoso per la grande nevicata, è perturbante rito di formazione. Una maledizione, divorante nel senso letterale del termine, colpirà gli abitanti del luogo tranne Sonia e l’amico Teo, unici con denti da latte ancora in bocca, stravolgendo i confini del “loro mondo”.
Una prova, quella di Peano, che insieme ai nuovi romanzi dei coetanei quarantenni Veronica Raimo, Jonathan Bazzi, Vanni Santoni e altri, come Viola Ardone, Marco Amerighi e la collega Daniela Ranieri con Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie), pare tra le più papabili-probabili per la corsa allo Strega 2022: è da cinque anni che non vince un “giovane”; l’ultimo fu Paolo Cognetti, nel 2017, con Le otto montagne, 39 anni e Mondadori, gruppo da allora a digiuno di premi liquorosi.
Per Raimo, 44 anni, ad aver lasciato il segno sono i genitori (oltre a nevrosi, altalene sentimentali, traumi e lutti): madre apprensiva patologica e padre chimico convinto che il mondo sia ricettacolo di agenti nocivi da cui urge proteggersi stando reclusi. Lei e il fratello Christian, genio della famiglia, sono forse diventati scrittori “grazie a tutta la noia che ci hanno trasmesso i nostri”. Lo racconta nella sua quinta “creatura”, Niente di vero (Einaudi), memoir caustico e brillante, ironico e dolceamaro. Zerocalcare ha detto che, dai tempi dell’adolescenza, nessun testo in prosa lo aveva mai fatto ridere ad alta voce come quello di Raimo, ma dimentica di specificare che si tratta di risate dolorose ché alcuni passaggi sono come tagli da foglio di carta. Sono invisibili ma bruciano. Tenuti sotto una campana di vetro, ai fratelli Raimo non restava che la lettura (uno scrittore è sempre un buon lettore), “rasserenante coalescenza di noia” più che evasione. Per lei che definisce la propria vita “un conflitto tra abbandonare qualcosa e cercare di riprenderlo”, e che non vede mai il bicchiere mezzo pieno/vuoto ma sempre sul punto di rovesciarsi (o non lo vede affatto), confezionare “storie ambigue e frustranti” si rivela così, da adulta, chiave per schermarsi, sottrarre “le parti più fragili, tenere e buffe di me stessa” e per normalizzare il suo essere un tantino sconclusionata, stramba, trafitta dalle perplessità, outsider. Per non sentirsi più tale, Jonathan Bazzi, nato nell’85, che con Febbre (diventerà film) è stato in finale allo Strega 2020 e ora esce con Corpi minori (Mondadori), segue due linee: l’emancipazione urbana cioè “elidere dalla corteccia cerebrale” Rozzano, Bronx del Sud milanese dove le chance di diventare qualcuno sono zero, per slittare nella capitale meneghina “dove ricchi e indigenti, imprenditori e studenti, barboni e avvocati” calpestano gli stessi marciapiedi e si può “apparire e scomparire, mimetizzarsi, dissolversi, tornare liberi” e risolvere la sua ossessione per l’amore che non dura. Come si fa a non farlo perire sotto il peso del tempo? Il segreto, conclude, è “rimanere sul bordo impreciso delle cose, rinunciare alla purezza, trovare minuscole strategie di convivenza con la minaccia. Restare anche quando il sogno è malconcio”. Che non è accontentarsi, ma uccidere l’idealizzazione. “Questa è solo una storia”, scrive, “ruota di possessioni ricorrenti e comuni, di paure che tornano per un motivo, noto, ignoto, e con cui fare i conti, mai una volta per tutte. Il fatto è che non puoi tenere fermo nulla di vivo, è dunque qui che finisce l’infanzia?”. Bazzi è dubbio palpitante e nervoso, come la sua scrittura, il bianco o nero non fa per lui.
La ricerca esistenziale è anche perno de La verità su tutto (Mondadori) di Vanni Santoni, 43 anni, una decina di romanzi all’attivo, opera ispirata come le precedenti a esperienze personali (mistica, psichedelia, meditazione, controculture) e tante letture, da Siddharta di Hesse a Occhi dell’eterno fratello di Zweig, dal testo ascetico Storia di un pellegrino russo fino a Le confessioni di Sant’Agostino, must filosofico per approcciare il tema della natura del male. Esiste? Che relazione ha col bene? Possiamo essere immuni dal commetterne? Che ruolo hanno redenzione e pentimento? I quesiti li incarna Cleopatra, brillante sociologa trentenne che a un certo punto molla tutto e finisce per fondare una comunità spirituale da un milione di adepti. Viaggiando dentro e fuori se stessa, tra comuni, ecovillaggi e ashram, continuerà a mettersi in discussione. “L’unica verità che esiste”, tra l’altro, è che non ne esiste nessuna. D’altronde la letteratura non consegna mai sicurezze ma dilemmi.