Come mai per questo suo nuovo spettacolo ha scelto due creature disumanizzate?
«Premetto che avevo un dialogo con lo Stabile aquilano di cui sono stato l’ultimo direttore prima del terremoto. Dopo anni il centro storico è risorto ma mancano gli ultimi interventi per la sala grande della città. Quando l’attore — direttore del teatro Giorgio Pasotti m’ha chiesto un’idea e una regia, ho pensato a certe nostre sopravvenute questioni di libertà di movimento, e a storie con un profumo di zolfo. Avventure che s’adattassero a Pasotti, con cui non avevo mai lavorato. I suoi precedenti mi sono venuti in aiuto».
A che trascorsi si riferisce?
«Pasotti arriva dal mondo dello sport, dalle arti marziali acquisite in terra cinese essendosi laureato lì in medicina, e io avevo in mente questi due racconti di Kafka sulla scarsezza sociale del libero arbitrio, che richiedono figure provviste di agilità e forza fisica, in grado di mimare posture animalesche. Un progetto subito condiviso, fisicamente, e tecnologicamente, con delle sorprese».
E possiamo immaginare che nel suo amore per “Una relazione accademica” ci sia il retaggio lasciatole da Vittorio, che adottò il testo per trent’anni, anche a Los Angeles dove nel 1984 eravamo in platea a seguirne un’edizione in inglese…
«Certo. Era uno dei suoi cavalli di battaglia, da quando lo varò dentro
Dkbc nel ‘67, e lo portò col Kean a Buenos Aires, in Brasile, in Francia.
Sono sempre stato attaccato alla sua potenza narrativa e emotiva. Per questa scimmia evoluta e integrata che tiene un discorso in pubblico, racconteremo una storia di giungla, nave, circo e raduno culturale. La tana è abbastanza meno rappresentato, e qui chiedo a Pasotti di gestire le sue origini bergamasche e il suo accento: per la creatura asserragliata sotto terra l’allusione è tra l’altro a gente dei nostri giorni chiusa in casa per virus, guerra e terrori, e mi sovviene una comunità o un mondo politico che fanno della paura la loro narrazione del quotidiano: l’ingenuità blindata trasforma il cittadino in un roditore nascosto in canali e labirinti, pronto a sbucare sulla superficie. Abbiamo mantenuto l’ironia inquietante di Kafka».
Rispettandone la scrittura?
«Sì, l’adattamento teatrale è di Emanuele Maria Basso, attore e aiuto-regista che stimo. Ho collaborato anch’io a piccoli tagli e modifiche. Mi diverto come per i miei interventi sulla scenografia.
Sarà uno spettacolo di metamorfosi impressionanti e di contenuti anche popolari. Non ci sarà la parrucca a fronte bassa che usava mio padre in Una relazione… ma Pasotti, un po’ come potenzialmente il sottoscritto, risponde bene con la sua postura, dotata di braccia più lunghe, che simula il cambio di specie. Io a teatro preferisco dedicarmi alla regia, evitando, tranne per il Riccardo III, le tentazioni di rifare il repertorio di papà. Gesti e voce (penso anche alla voce di Jacopo) troppo simili».
Questa fauna umana e animalesca di Kafka fa pensare a un contatto col suo recente libro “Io e i #GreenHeroes”.
«Tutti e due i personaggi di questo spettacolo hanno una via di fuga. La scimmia che parla all’accademia confessa che quando torna a casa, e vede un albero, pensa alla libertà che ha perduto. Ne La tana ho spostato un pezzo nel finale, una sorta di Giorni felici, quando la talpa rinuncia alle proprie sicurezze, ed esce allo scoperto. Io tengo molto al green, alla natura gentile, ai cambiamenti climatici, per figli e nipoti».
Qui fa ancora entrare il cinema nel teatro?
«Un po’ di immagini mi aiutano in Una relazione…: evocative, amplificanti, mai didascaliche. Per La tana prevale una landa deserta dove in concreto piove, c’è vento».
E fuori dal teatro, in che film comparirà?
«Uscirà Il pataffio di Francesco Lagi, dal romanzo di Malerba, un anno 1000 alla Brancaleone, con Lino Musella e Mastandrea, io e Tirabassi. Parlo latino, per il quale papà mi dava calci nel sedere. Poi per Netflix ho fatto Il mio nome è vendetta di Cosimo Gomez, tutto azione, una ‘ndrina paga un gesto sbagliato, e io mi lascio dietro 21 cadaveri. Poi riprendo Un professore ».