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 2022  febbraio 17 Giovedì calendario

Ericsson pagò l’Isis per lavorare in Iraq

Tangenti a uomini dello Stato Islamico per ottenere accessi alternativi all’Iraq e far passare merci in zone controllate dai jihadisti pur di aggirare la dogana. È la pesantissima accusa che in queste ore sta travolgendo Ericsson, il gigante svedese delle telecomunicazioni, tra i principali fautori dello sviluppo del 5G in Europa. «Sì, ci sono state gravi violazioni del nostro codice etico» ammette l’amministratore delegato Borje Ekholm, rispondendo alle domande del giornale locale Dagens Industri. «Però nessuno dei nostri dipendenti è risultato direttamente coinvolto nel finanziamento di organizzazioni terroristiche, anche se abbiamo licenziato diverse persone coinvolte nella vicenda. Né siamo riusciti a stabilire in quali mani sia effettivamente finito il denaro» ha spiegato. Confermando «l’effettiva cattiva condotta di alcuni collaboratori e le azioni di corruzione». E pazienza se quei fatti sono stati appurati già nel 2019, dopo un’indagine interna svolta su sollecito del Dipartimento di Giustizia Usa. La vicenda è emersa solo ieri e le ammissioni hanno scatenato un putiferio, facendo crollare di 12 punti il titolo del un brand che d’altronde ha scelto di puntare sul 5G anche giocando sulla sfiducia americana verso la cinese Huawei.
Secondo il Financial Times, fra le violazioni accertate ci sono numerosi pagamenti eseguiti fino al 2018 a favore di fornitori senza nessuna ricevuta a dimostrarne la veridicità. Ma anche l’uso di grossisti esterni per fare versamenti in contanti a terzi. E poi spese di viaggio inadeguate rispetto a tempi e a tragitti. E l’uso improprio di agenti di vendita e consulenti preposti a mantenere i contatti con ambigue figure locali. Gli appaltatori ingaggiati da Ericsson in zona, questo è accertato, pagarono il pizzo a organizzazioni criminali attive sul territorio per avere accesso (e protezione) appunto su percorsi alternativi che gli permettevano di entrare nel paese senza dover dichiarare la merce trasportata. Cui si aggiunge, lo ha confermato lo stesso ad, «il sospetto di riciclaggio di denaro sporco». Non basta: ad aggravare la posizione dell’azienda svedese c’è il fatto che buona parte di quelle spese vennero effettuate fra 2011 e 2018. Includendo, insomma, proprio il periodo in cui lo Stato Islamico ampliava il proprio controllo su quella fetta di territorio iracheno, dominando sull’area di Mosul dove il 29 giugno del 2014 Abu Bakr al-Baghdadi proclamò la nascita del “califfato”. Zona controllata fino al 2017. Non è la prima volta che sull’azienda svedese pesa l’accusa di corruzione. Già nel 2019 fu costretta a sborsare 1 miliardo di dollari – versati per metà alla giustizia americana e per metà alla Sec, l’ente federale preposto alla vigilanza della Borsa statunitense, per appianare proprio le accuse di corruzione e condotta sleale in cinque paesi: Cina, Indonesia, Vietnam, Gibuti e pure in quel Kuwait, che confina con l’Iraq. Ora, oltre che davanti alla legge, rischia di dover risponderne delle proprie azioni anche con gli investitori.