La Stampa, 16 febbraio 2022
Trent’anni di Mani Pulite
Un fiume placido in Olanda e lo sciacquone di un water in Lombardia. Il Grande Lavacro del 1992, che cambia per sempre la Storia d’Italia, scorre tutto qua dentro. Nessuno ci pensa, ma è andata così. Il 7 febbraio di quell’anno di fango, nella ridente cittadina di Maastricht adagiata sulle rive della Mosa al confine col Belgio e la Germania, Giulio Andreotti firma il Trattato di Maastricht, insieme ai ministri del Tesoro Carli e degli Esteri De Michelis. Dieci giorni dopo, il 17 febbraio, il "mariuolo" Chiesa tampinato dai carabinieri spediti al Pio Albergo Trivulzio da Di Pietro si rifugia al cesso e prova inutilmente a nascondere i 37 milioni di tangente che ancora non gli avevano scoperto. Sono i due passaggi-chiave della Repubblica, sempre sospesa tra l’abisso e la vetta, il pozzo e il cielo. L’alfa e l’omega di una vicenda parallela, l’inizio inconsapevole di un tentativo di redenzione finanziaria e la fine certa di un sistema di malaffare politico. Senza neanche rendersene conto, il Belpaese marcio, proprio mentre si mostra al mondo nella sua miserabile cialtroneria, si immerge nell’acqua di un’Europa che in trent’anni ci chiederà conto di ogni nostra nefandezza.
L’Italia del ’92 è un Paese a pezzi e non lo sa. A Palazzo Chigi sverna l’ultimo Andreotti, e mentre l’allora sconosciuto trafficante socialista viene trasferito in ceppi a San Vittore, Craxi racconta la prima bugia: "Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti, e mi ritrovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine del partito…". Magari fosse vero. Prima ancora che il Pool di Milano lo metta in mora e poi in manette, il sistema sta già crollando dalle fondamenta. La politica è alla frutta, l’economia è allo stremo. Il governo del Divo Giulio è ormai agli sgoccioli. Il Caf, Comitato d’affari Craxi-Andreotti-Forlani che ha fatto e disfatto nei dieci anni precedenti, è ormai morente. La formula del pentapartito agonizza. E dopo i primi arresti, la giovane Lega Nord di Umberto Bossi e Gianfranco Miglio gonfia la giugulare al grido di battaglia che poi gli si strozzerà momentaneamente in gola nel ’94, quando accompagnerà la titanica "discesa in campo" del Cavaliere: "Roma Ladrona".
Mentre Mani Pulite allarga il fronte delle indagini, degli avvisi di garanzia e dei mandati di cattura, il quadro politico, paurosamente, "si sfarina", per usare la celebre formula di Rino Formica. Arrivano stanche le elezioni del 5 aprile, dove fa capolino un astensionismo mai conosciuto dalle nostre parti. La Dc perde più di 4 punti e scivola al 29,6 per cento, il Psi cede solo un punto nonostante la memorabile satira del tempo (una su tutte, memorabile: "Scatta l’ora legale: panico tra i socialisti"). Pri, Pli e Psdi, come si dice nel gergo dell’epoca, "tengono". Il Pds di Occhetto, nonostante la coraggiosa Bolognina, brucia 5 punti. Ma è il Carroccio che sfonda le porte di Tangentopoli assediata, passando da 2 a 80 parlamentari in un colpo solo. Invece di capire l’antifona, i leader scalcinati e braccati dai pm e dai cittadini sempre più indignati si rinchiudono nella fortezza e impapocchiano un penoso "quadripartito", dal quale solo i repubblicani di La Malfa hanno il buon gusto di sfilarsi.
Nel frattempo c’è da eleggere il presidente della Repubblica, perché il 28 aprile si dimette il Grande Esternatore, Francesco Cossiga. E lì si consuma un’altra autodafè. Tra i partiti esanimi volano gli stracci. Cionondimeno si tenta l’ennesima pastetta: prima avanza la candidatura di Forlani, poi quella di Andreotti. E chissà, magari uno dei due l’avrebbe pure spuntata, se nel frattempo a macchiare di rosso quell’annus horribilis non ci si mettesse anche la Mafia, che con tutta evidenza non uccide solo d’estate. Dopo aver fatto fuori prima Salvo Lima, poi il maresciallo Giuliano Guazzelli, Cosa Nostra osa l’inosabile. La strage di Capaci, il 23 maggio, stravolge vite e coscienze di una nazione prostrata e inebedita. Serve il massacro di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i cinque uomini di scorta per spingere l’establishment a un sussulto: sul Colle sale un galantuomo, Oscar Luigi Scalfaro. Sarà un bene, anche in vista delle spallate prossime venture che il berlusconismo da combattimento proverà ad assestare alle istituzioni. Anche se non basterà a placare la sete di sangue dei corleonesi di Totò Riina e della sua Cupola, che con l’assassinio di Paolo Borsellino a via D’Amelio, il 19 luglio, completeranno di lì a poco il loro attacco al cuore dello Stato.
Con la politica in disarmo, e la frusta di Borrelli e dei suoi pm che continua a flagellare le nomenklature, frana anche l’economia del Paese. Archiviato Andreotti, il governo di Giuliano Amato si insedia a fine giugno. E mentre prova a schivare la gragnuola di avvisi di garanzia che piovono addosso ai suoi ministri e sottosegretari, vara il primo salasso da 30 mila miliardi di lire, e sono già dolori: patrimoniale sulla casa e prelievo forzoso del 6 per mille, dalla sera alla mattina, sui depositi bancari. "Una rapina, intollerabile e incostituzionale", diranno in molti. "Una sana sveglia a un’Italia persa nei suoi sogni", diranno altri. Più giusta la seconda, con tutta evidenza: in quel disastroso ’92 il debito pubblico italiano sfonda per la prima volta il 100 per cento del Pil, ha un deficit del 9,9 per cento e un’inflazione al 12. Un Paese in bancarotta. E anche questo è un esito di Tangentopoli, architrave della "democrazia del debito" nella quale le Partecipazioni Statali diventano la mangiatoia dei partiti, l’evasione fiscale è quasi incentivata e sempre condonata e i Bot al tasso di interesse del 15 per cento diventano strumento di consenso e voto di scambio. Sempre a carico delle future generazioni.
Non può reggere. E infatti non regge. Mentre fioccano gli avvisi di garanzia, a carico dei segretari e dei tesorieri, dei sindaci e dei parlamentari, la povera liretta paga pegno, com’è inevitabile per una nazione in bolletta. Dopo un attacco speculativo senza precedenti sui mercati internazionali, il 13 settembre Amato va in tv ad annunciare che la lira sarà svalutata del 3,5 per cento. La vende come una grande notizia. Quasi un atto di forza. È l’esatto contrario: è la resa di uno Stato Fallito. Nonostante le difese erette dalla Banca d’Italia, di lì a poco la nostra valuta è costretta all’ultimo stigma: deve uscire dallo Sme, il Sistema Monetario Europeo, e vagare sola e sperduta fuori dal club delle monete che contano. Il corollario della resa, inevitabile, è la madre di tutte le stangate: solo 4 giorni dopo, il 17 settembre, il Dottor Sottile propina agli italiani una maxi-manovra da 93 mila miliardi di lire. Dentro c’è di tutto: il congelamento delle pensioni di anzianità, la tassa sui telefonini, il taglio draconiano della spesa sanitaria, il blocco dei contratti nel pubblico impiego. Come dire: dopo la galera per i praticanti della mazzetta, la carestia per i postulanti dello Stato Pantalone.
Perché a voler trarre qualche morale dalla favolaccia tricolore del ’92, forse se ne possono indicare un paio. La prima è questa. Dalla fine degli Anni ’70 e per tutti gli Anni ’80 abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, e al di fuori degli standard etici di una moderna democrazia europea. Lo Stato non eravamo noi: era il nemico da fregare, o la mucca da mungere. Le tasse si pagavano "bestemmiando lo Stato", come scriveva Piero Gobetti già negli Anni ’20. Il potere politico non solo consentiva, ma in qualche modo agevolava il meccanismo. Il potere economico cedeva, o comunque partecipava al gioco. Mani Pulite non è stato un golpe, ma l’esito scontato e prevedibile di un collasso del sistema dal quale forse non ci siamo mai del tutto ripresi. Con i suoi errori, le sue forzature, i suoi eccessi nell’uso della carcerazione preventiva, il Pool non ha compiuto "atti sediziosi" né "persecuzioni". Ha fatto quel che doveva e poteva. Talvolta supplendo, talvolta esagerando (vedi i drammatici comunicati contro il decreto Biondi). Certo da lì, sull’acqua di palude nella quale affondavamo, partono le prime increspature dell’anti-politica, che poi avrebbero prodotto a ondate successive il Ventennio populista del Cavaliere, l’avvento dei tecnici alla Mario Monti, il grillismo dei Vaffa e dell’uno vale uno, il sovranismo di Salvini e Meloni. Ma per favore, di questo non diamo colpa alle "toghe rosse" immaginarie di quel tempo. Ringraziamole, piuttosto.
La seconda morale è quest’altra, e forse ha a che vedere con la prima. Caduti nel fango, abbiamo provato a rialzarci. Stanchi, sporchi, ammaccati, impoveriti. Ne abbiamo viste e vissute ancora tante, da allora. Ma in qualche modo siamo andati avanti. Chi ci ha salvato, dopo il bagno iniziale di Mani Pulite? Siamo sinceri con noi stessi. Ieri come oggi, è il "vincolo esterno", il nostro vero salvatore. Torniamo così al fiume olandese e allo sciacquone del water: i due elementi si tengono. Se in quel misterioso attimo di estemporanea lucidità o di momentanea incoscienza proprio Andreotti, il Belzebù archetipico del consociativismo italico, non avesse messo la firma su quel Trattato di Maastricht che istituì la moneta unica e ci inchiodò ai vincoli che il farne parte ci imponeva, la scoperta di quella mazzetta dalla quale venne fuori Tangentopoli non sarebbe servita a niente. Senza l’euro, senza l’Europa, noi non saremmo mai usciti da quella cittadella infame, dove consenso e corruzione erano parte dello stesso mercimonio. Non avremmo mai raggiunto, il 31 luglio di quello stesso 1992, gli accordi sul costo del lavoro che di fatto abolirono la scala mobile. Non saremmo mai entrati a testa alta, con il gruppo dei Paesi fondatori, nella moneta unica del 2001. Non avremmo resistito alle crisi del 2008 e del 2011. E oggi non avremmo mai ottenuto i 200 miliardi del Next Generation Eu, l’ultimo treno sul quale possiamo salire per rifondare e modernizzare davvero il Sistema-Paese.
In quel febbraio di 30 anni fa, tra i nostri antichi vizi ci imponemmo, quasi nostro malgrado, una nuova virtù. I primi non sono scomparsi, la seconda non ha trionfato. Ma insomma, senza la Madre Europa ci poteva andare molto molto peggio. Lo scrisse nelle sue memorie, Guido Carli, che di Maastricht fu il vero padre, insieme a Ciampi e, pensate un po’, a Mario Draghi: "In fondo, Tangentopoli non è che un’imprevista opera di disinflazione di un’economia drogata, un completamento inconsapevole del Trattato di Maastricht". Aveva ragione da vendere, quel vecchio, grande ex banchiere centrale. Anche lui, un altro tecnico prestato alla politica.