Linkiesta, 16 febbraio 2022
L’ascesa dei sommi capolavori palingenetici
Come funzionano le influenze? Amazon sta stravendendo un libro intitolato Le paure segrete dei bambini. È accaduto che una bottegaia dell’Instagram, di quelle che parlano della loro avvincentissima esperienza di maternità, l’abbia messo nelle storie – quelle che durano quindici secondi e mettono alla prova la fragilità della nostra attenzione – e sotto ci abbia scritto: Un libro che a mio avviso chiunque ha a che fare con dei bambini dovrebbe leggere.Per bucare l’attenzione entro i quindici secondi devi essere uno slogan, e il sottotitolo di questo libro è: Come capire e aiutare i bambini ansiosi e agitati. Se avete mai scorso i penzierini delle mamme sui social, sapete che sono tutte convinte d’avere figli speciali, e fragili, e bisognosi d’attenzioni. L’invenzione dell’infanzia come tema prevede non solo che non li mandiamo più in miniera, ma anche che ci convinciamo siano creature interessantissime, che meritano ci mettiamo a studiare per avere a che fare con loro. In Inventing Anna, la giornalista che vuole intervistare Anna Delvey è incinta, e a colloquio in carcere Anna sprezzantemente le dice che i figli si son sempre fatti, anche accovacciandosi nei campi, insomma quante storie. Temo sia una battuta messa lì per dirci in maniera incontrovertibile che Anna è una cattiva: come puoi non aderire alla mistica della maternità, mostro.
Qualche settimana fa Concita De Gregorio ha citato nella sua rubrica su Repubblica uno dei racconti del più famoso libro di Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli. L’ho subito ordinato, quand’è arrivato ho riconosciuto la copertina, ho capito d’aver comprato l’ennesimo doppione di libro non letto e ingoiato dal disordine, e ovviamente non mi ricordavo più che racconto citasse Concita. L’ho chiamata per chiederglielo. Lei – senza dirlo, con quel garbo che ha lei – mi ha fatto capire di lasciar perdere, che non era roba per me, per me che dico sempre che non voglio leggere o vedere roba in cui ci siano poveri.
Mi sono ricordata di una volta in cui Baricco riuscì a vendermi – a vendere a tutti noi – Isabella Santacroce. Ero giovane e suggestionabile, certo; ma, soprattutto: era Baricco. Mi sono ricordata di quando tutti sostenevano che Open, l’autobiografia di Agassi, fosse diventata un bestseller grazie a un tweet di Lorenzo Jovanotti. Però Open era bellissimo, scritto da uno scrittore pazzesco (se non sapete cosa guardare stasera, su Prime c’è il film tratto non dall’autobiografia di Agassi ma da quella dello scrittore, J.R. Moehringer, s’intitola The Tender Bar, lo dirige George Clooney): forse le cose bellissime si vendono da sole, e il problema sono le altre.
Come si vendono, i consumi culturali medi? Non a mezzo critica, ormai. Lo sanno tutti: gli unici ai quali importano le recensioni sono gli uffici stampa, terrorizzati che gli editori si rendano conto che non servono più a niente. Quasi neanche agli scrittori dall’ego più fragile interessa più comparire nelle pagine culturali, sapendo benissimo che li recensiranno scrittori con cui andranno a cena la sera dopo e la cui massima ambizione è vedere la propria recensione condivisa sui social dall’autore del libro: con queste premesse, potrà mai essere non dico una stroncatura, ma un elogio più sobrio di «sommo capolavoro che cambia per sempre la letteratura italiana»?
In What She Said (è su Sky), Pauline Kael, critica cinematografica del New Yorker di quando la critica era influente, dice che il critico dev’essere odiato da tutti, anche dal pubblico al quale demolisce i suoi cocchi, «Se ti apprezzano, devi iniziare a preoccuparti». Questa cosa qui ce la siamo persa, almeno in Italia, almeno in questo secolo. Ce la siamo persa e ne siamo scioccamente lieti. Ce la siamo persa e abbiamo fatto passar la voglia a quelli bravi: da Paolo Giordano a Alessandro Piperno, chi ha voglia di fare critica culturale perlopiù si rifiuta di scrivere di italiani. Chi glielo fa fare, che poi se osi dire qualcosa di non elegiaco ti danno del bastiancontrario che vuole farsi notare, e se di qualcosa scrivi lodi ti arrivano in cento a pretendere altrettante lodi, novantacinque dei quali pubblicati dal tuo stesso editore o che collaborano al tuo stesso giornale?
Sui social è molto fotografata un’intervista a Giorgio Montefoschi pubblicata dall’Espresso. Un passaggio in particolare, fotografato da metà degli opinionisti social al grido di «Oddio, quant’è vero, l’ho sempre pensato anch’io» e dall’altra metà al grido di «maschilista schifoso». La risposta riguarda le scrittrici italiane viventi, e fa così: «Non sente la musica? Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite. Ma quante volte cambiano vita? Quante vite hanno?». Confesso di far parte della prima metà, e di trasecolare ogni volta che un’adulta (ma pure un adulto) dice senza mettersi a ridere d’aver avuto la vita cambiata da un libro, da un film, da un incontro. (Oddio, magari incontrando un miliardario disposto a sposarti in comunione dei beni puoi trovarti con la vita cambiata, ma non mi vengono in mente molti altri esempi).
Però non è per questo, che l’intervista mi ha fatto venir voglia di leggere Montefoschi. È per la parte in cui descrive suo figlio come un perfetto idiota. Così come la demolizione che ne aveva fatto il New York Magazine mi aveva fatto venir voglia di leggere Hanya Yanagihara. Per consumi culturali più complessi di «i vostri figli hanno paura, aiutateli», una stroncatura, un difetto, una crepa nel santino è più efficace d’un «sommo capolavoro, puntesclamativo»; specie se chi puntesclamativa legge sempre e solo sommi capolavori: quanti sommi capolavori puoi incrociare, in un anno da recensore?