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 2022  febbraio 16 Mercoledì calendario

Intervista a Paolo Taviani

Leonora addio, ritorno a Berlino. Paolo Taviani, 90 anni, rappresenta l’Italia alla rassegna tedesca — dieci anni dopo l’Orso d’oro per Cesare deve morire — con un film che firma da solo e dedica al fratello Vittorio, scomparso nel 2018. Al racconto dell’incredibile vicenda delle ceneri di Pirandello si unisce Il chiodo , scritto dall’autore poco prima di morire. Il film si apre sulla cerimonia che consegna il Nobel per la letteratura al drammaturgo, nel 1934, e l’amara riflessione che lui affida alla compagna («non mi sono mai sentito tanto solo e tanto triste, il dolce della Gloria non può compensare l’amaro di quanto è costata») e si chiude a teatro («bisogna che il tempo passi e porti via tutti gli scenari della nostra vita, il mio me lo sono già arrotolato sotto il braccio»). «È un film che parla di morte ma anche di teatro e celebra la vita», dice Taviani. Nel mezzo si attraversa con Fabrizio Ferracane, funzionario incaricato di scortare l’urna ad Agrigento, un Paese squarciato dalla guerra e una Sicilia scintillante dove, nella roccia, riposerà finalmente l’autore.
Prodotto da Donatella Palermo con Rai Cinema, Leonora addio è in sala dal 17 febbraio con 01.
Dieci anni fa “Cesare deve morire”. Che cosa ricorda?
«Un’accoglienza inaspettata.
Eravamo contenti per i detenuti che avevano lavorato con noi. Io e Vittorio avevamo fatto il cinema folgorati da Paisà di Rossellini.
Quando lui ci aveva dato la Palma d’oro a Cannes, il cerchio si era chiuso. Un altro premio e dicemmo: basta concorrere con le nuove generazioni. Ma nel 2012 i detenuti ci chiesero la gara per avere più attenzione.
La sera della premiazione il direttore di Rebibbia fece ascoltare loro la cerimonia alla radio. Quando fu annunciata la vittoria ci fu un urlo collettivo, da fuori si pensò a una rivolta.
Sono tornato in concorso per avere visibilità, qualcuno in più forse andrà a vedere il film».
Chi era più apprensivo, lei o Vittorio?
«Non so, siamo partiti insieme, io avevo 16 anni e lui 18. Abbiamo affrontato tutto insieme, cinema, vita, emozioni. Nel film c’è la dedica che ho scritto a mano per lui. Se non firma con me è perché ha chiesto, prima di morire, che non ci fosse il suo nome su cose che non poteva controllare. Ma per me è sempre stato al mio fianco. Ci piaceva tanto girare insieme che ci litigavamo le scene. In Una questione privata a ogni ciak mi voltavo a cercare la sua approvazione, anche se era a Roma.
Stavolta ho sentito il suo sguardo».
A questo film avevate pensato insieme.
«Sì, un episodio da aggiungere al finale di Kaos . il produttore disse: “Bello ma non c’è una lira”. La storia delle ceneri di Pirandello è stata raccontata da tanti, compreso Camilleri che però parla più di sé, ma è così grottesca che sembra di Pirandello. Con Vittorio avevamo scritto un primo soggetto su Il chiodo . Leonora addio invece era legato a un racconto che ho tolto dal film, ma ho tenuto il bel titolo».
Kaos” fu un grande regalo a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, spesso maltrattati dalla critica.
« La giara era un’opera così perfetta che per noi avrebbero potuto farla solo loro. Non li conoscevamo, prima di incontrarli ci preparammo per sembrare meno intellettuali.
Invece citarono Platone, riferimenti altissimi. Diventati amici, ci spiegarono che avevano “interpretato” una versione più intellettuale di sé stessi».
Il direttore della Berlinale, Chatrian, ha detto che è il film di un autore che ha ancora molto da dire, idee e coraggio.
«Non è un film per chiudere la partita, né Vittorio avrebbe voluto chiuderla, però si è ammalato.
Ho tanti progetti, mi dicono “e mo’ basta” ma il set è il mio elemento naturale. Abbiamo girato in Sicilia con 37 gradi, siamo stati interrotti dalla pandemia, ad Agrigento c’è stato un positivo nella troupe e un esodo con ogni mezzo. Poi la calura di Cinecittà. Non sentivo la fatica.
A casa ero sfinito, ma il set è vita».
Racconta il periodo storico sullo sfondo con i capolavori neorealisti.
«L’istituto Luce ha un repertorio formidabile, nei film di De Sica, Visconti, Rossellini, ho ritrovato il mio vissuto».
Dai giornali messi sotto alle giacche per ripararsi dal freddo ad altri dettagli...
«Come la scena in cui il soldato americano s’affaccia nel vagone e “invita” la giovane: accadde a mia sorella, 14 anni, per strada. I miei quasi non la fecero uscire più».
Come guarda a questo presente?
«Non lo capisco. Nel film sottolineo il momento in cui il ragazzo dice che ha ucciso la bambina perché “il chiodo mi ha spinto a farlo”, cose surreali che mi ricordano l’atmosfera di oggi.
L’ho sentito contemporaneo, questo film».
Leggere sui giornali le cronache sulla guerra?
«Mi fa soffrire perché ho dei nipoti.
La guerra è una cosa meschina, puoi cercare di cancellare la meschinità e l’orrore parlando di eroi e resistenze.
Ma resta una cosa squallida. Siamo sotto l’imperio di soggetti che, presi uno per uno, sono dei mediocri, tutti.
E le guerre sono figlie della mediocrità».
Cosa possono fare gli intellettuali?
«Non esiste una risposta di tipo retorico. Noi pensavamo che la guerra fosse finita per sempre dopo Germania anno zero : un bambino che si suicida nella Berlino distrutta ti fa capire la guerra meglio di ogni altra cosa. Un’opera gigantesca che andrebbe proiettata nelle scuole. Ma so che non lo faranno».