la Repubblica, 16 febbraio 2022
Giustizia e minigonne
Se capisco bene le cronache, piuttosto criptiche, sugli sviluppi del caso Francesco Bellomo (quel consigliere di Stato che nella scuola di magistratura dove insegnava, per così dire, costringeva le aspiranti giudice a indossare minigonne e tacchi alti, indicava regole da osservare coi fidanzati e altre ne pretendeva per sé) deduco che la sezione disciplinare del Csm ha ridotto da due anni a sei mesi la sospensione del pm del pool contro i reati sessuali di Rovigo, Davide Nalin, accusato di agire in accordo con Bellomo e di premere sulle ragazze perché lo accontentassero. Un comportamento, per così dire, in perfetta antitesi rispetto al compito che avrebbe dovuto svolgere: sanzionare i reati sessuali, non facilitarli.
Nalin, leggo, può riprendere subito ad esercitare la professione di magistrato. Le accuse principali a suo carico sono state archiviate (anche) perché una delle borsiste vessate ha ritirato la querela. Ma pensa, chissà come mai. Tre questioni. L’imputato è innocente fino a prova contraria, certamente: si vede che le prove mancavano. Le giovani donne “vessate” (non proprio bambine, specializzande in materie giuridiche) erano in condizioni di comprendere quel che stava accadendo e di respingere le proposte. Se non lo hanno fatto ci deve essere stata, anche, una “pressione ambientale” – chiamiamola così – diffusa e tenace: o fate come diciamo noi o vi roviniamo, per esempio. Ma è solo un’ipotesi.
Il Csm, sotto riforma e indicato da Mattarella come luogo di non proprio specchiate virtù, conferma un comune sentire: le categorie si autotutelano, i potenti pagano prezzi irrisori, chi si mette nei guai se l’è cercata, alla fine. Brutta storia, non si sa chi ne esca peggio.