Rivista Undici, 15 febbraio 2022
L’amore infinito tra Carlo Ancelotti e i suoi giocatori
Quando parla di sé, Carlo Ancelotti parla dei suoi giocatori. Ogni volta che Ancelotti parla dei suoi giocatori lo fa con gratitudine, come se ognuno di loro avesse contribuito alla costruzione, alla definizione, al completamento della sua identità di allenatore. E di uomo. Nonostante tutto questo, difficilmente parla di sé e dell’influenza che lui ha esercitato sui calciatori che ha allenato: le intuizioni tattiche e le affinità personali restano aneddoti privati, racconti segreti non da condividere con il prossimo ma da ricordare con i protagonisti. Quel che i calciatori hanno fatto per lui è come se appartenesse alla sfera pubblica, invece: è successo davanti a tutti e quindi se ne può parlare con tutti. Quando racconta quel momento della sua carriera in cui fu costretto ad abbandonare i modi abitudinari della provincia e ad adottare i gusti cosmopoliti del calcio metropolitano, Ancelotti non parla dei suoi studi, delle sue difficoltà, del suo cambiamento. Parla di Roberto Baggio nel 1997, anno in cui il Parma avrebbe preso il Divin Codino se non fosse stato per la paura di Ancelotti di rompere le linee del suo 4-4-2. «Pensavo ancora che il 4-4-2 fosse lo schema ideale, ma non era così. Se avessi la macchina del tempo, tornerei indietro e Baggio eccome se lo prenderei. Ho sbagliato a essere così intransigente, con il tempo ho imparato che una soluzione per far coesistere tanti grandi giocatori alla fine si trova».
L’intransigenza è l’attributo del bravo maestro, d’altronde, e negli anni di Parma Ancelotti era il maestro migliore. Fabio Cannavaro lo racconta come l’uomo che gli ha insegnato la marcatura a zona: «Io ero abituato solo alla marcatura a uomo, ma grazie a lui ho imparato i movimenti giusti e la postura corretta. È difficile interrompere Carletto quando comincia a darti consigli». Movimenti giusti e postura corretta e tutto il resto, con un’attenzione al dettaglio che alla fine degli anni Novanta era facile confondere con l’ossessione di un giovane allenatore con solo un anno sulla panchina della Reggiana alle spalle. «Mi ha insegnato come vive un atleta, come mangia e come dorme. Si è sempre preoccupato molto dei giovani giocatori. Dargli ascolto è la cosa migliore che un calciatore all’inizio della carriera possa fare», racconta Hernán Crespo.
Nel 1999 Carlo Ancelotti va ad allenare la Juventus e si ritrova in una situazione in cui non bastano più gli appunti presi durante le lezioni di Arrigo Sacchi. Alla Juventus c’è Zidane, il più grande talento del calcio europeo nel momento del suo massimo splendore: «All’epoca ero convinto che i giocatori dovessero adattarsi al sistema e che la priorità fosse la messa a punto della difesa. Ma quando sono arrivato alla Juventus ho cambiato idea e l’ho fatto grazie a Zidane. Come potevo costringere un talento del genere a giocare largo a destra o a sinistra in un 4-4-2? Non aveva senso neanche farlo giocare in attacco e quindi adottai il 4-1-3-2, con Zidane in cima al triangolo di centrocampo». Non basta l’arguzia tattica, però: per quanto il periodo bianconero sia il più sbagliato della sua carriera, è in quegli anni che Ancelotti impara la lezione che lo renderà poi l’allenatore più speciale, vincente e amato (ovviamente dai tifosi, ma soprattutto dai giocatori) del mondo: Zidane vuole andar via per questioni che poco e nulla hanno a che vedere con il campo, qualcuno deve convincerlo a restare alla Juventus, a Torino. Qualcuno deve parlarci. È in questa situazione che Ancelotti impara la lezione che cambierà la sua carriera e la sua vita: «Un allenatore deve stare vicino ai giocatori, deve capirli. Io posso anche avere la mia idea del gioco, ma quelli che lo giocano sono loro. Se il rapporto è buono, i giocatori capiranno tutto alla perfezione; se non lo è, tutto diventa più difficile. Bisogna saper comunicare, essere aperti, flessibili, non rigidi. Se si è rigidi, i giocatori non si lasciano convincere». Secondo Ancelotti, infatti, la prima qualità di un allenatore sta nell’onestà che serve ad ammettere che la panchina è soltanto un surrogato del campo: «Alleno perché voglio giocare. Mi piacerebbe giocare le partite, non preparale, ma ho sessant’anni e non posso giocare. Allenare mi permette di tenere viva la mia passione». Le sue affinità elettive con i giocatori cominciano proprio qui: nel desiderio di essere (ancora) uno di loro, nella capacità di cedere a loro il ruolo di protagonisti del gioco.
Alla Juventus finirà male, e quel finale deprimente diventerà la premessa di quegli anni milanisti difficili da definire con un aggettivo che non suoni melenso o pomposo. A questo punto della sua carriera Ancelotti ha già capito che la soluzione per far coesistere tanti grandi giocatori non sta (solo) nell’armonia delle linee disegnate sulla lavagnetta tattica ma nella giusta sequenza di parole, pronunciata al momento giusto, con il tono giusto, alla persona giusta.
Tutte le vittorie e tutta la bellezza del Milan di quegli anni cominciano con Ancelotti che parla con i suoi giocatori: di calcio, anche; di loro, soprattutto. «Per me è stato un padre. Abbiamo trascorso tanto tempo insieme. Mi ha fatto giocare il calcio migliore della mia carriera, spostandomi in un ruolo diverso, più arretrato. Cambiò la mia posizione in campo. Gli anni passati con lui sono stati indescrivibili», ricorda Andrea Pirlo. «Per me è stato più che un allenatore. Tra noi c’era un legame che andava oltre quello che di solito si costruisce tra un giocatore e un allenatore. Lui era la persona che chiamavo nei momenti di difficoltà», ricorda Gennaro Gattuso. «Ogni volta che penso a Carlo non posso fare a meno di sorridere», dice Andriy Shevchenko. «La gente dice che io ero la bandiera di quel Milan. Se io ero la bandiera, allora lui era il vento», l’omaggio romantico di Paolo Maldini.
Nei suoi anni al Chelsea Ancelotti fu ribattezzato, tra le altre cose, “the diva whisperer”: l’allenatore che sapeva cosa dire e come dirlo, sempre e comunque, a tutte e ad ognuna delle dive con le quali si trovava ad avere a che fare quotidianamente. John Terry era il capitano del Chelsea che Ancelotti guidò alla conquista del primo Double della storia blues: «il capitano dei capitani», lo definì Ancelotti con l’attenta scelta di parole di chi ha ormai imparato la lezione su come si fa a far coesistere tanti grandi giocatori. Nella carriera di Ancelotti c’è stato un momento in cui la sua rilevanza non è stata più misurabile con quel che si vedeva in campo e con ciò che finiva nella bacheca dei trofei: che senso ha continuare a discutere dei successi di un uomo che ha ottenuto tutto, d’altronde? A un certo punto, è diventato più semplice e più utile misurare l’importanza di Ancelotti attraverso le parole dei suoi giocatori. Di lui, il capitano dei capitani disse che «quel che amavo davvero di Carlo era la sua capacità di guidare gli uomini. Si ambientò in un attimo e, quando parlava con me, con Frank (Lampard, ndr), con Didier (Drogba, ndr), voleva sapere la nostra opinione: “Forse ci stiamo concentrando troppo sulla tattica? Stiamo facendo troppo di questo o di quello?”. In tutta la mia carriera non ho mai avuto un altro allenatore che si interessasse così sinceramente dell’opinione dei calciatori, che affidasse loro reali responsabilità».
Per Ancelotti, nel rapporto con i giocatori si manifesta l’approccio stesso dell’allenatore al suo mestiere: «È così che lavora un bravo manager, studia, pensa e discute», ripete spesso. Ma ovviamente la bravura non si esaurisce in tre parole, in un trittico di verbi. La scuola di micromanagement di Ancelotti è d’ispirazione religiosa: «Sono un cattolico e uno degli insegnamenti fondamentali della religione, per me, è trattare gli altri come vogliamo essere trattati noi». E da questa regola d’oro che Ancelotti ha ricavato i princìpi che lo guidano ancora oggi in ogni allenamento, in tutte le partite: motivazione («la cosa che conta più di tutte è avere giocatori che vogliano giocare») e gentilezza. Viene difficile immaginare una manifestazione di reale e genuina gentilezza in una selva oscura come il calcio d’élite, ma viene facile immaginarne una con protagonista Ancelotti. Più di una, in realtà. In certi casi questa gentilezza la si può intuire indirettamente, dai racconti di chi l’ha ricevuta e ne serba il ricordo.
Cristiano Ronaldo viene spesso accostato a una forma di vita perfezionata, liberata dal fardello emotivo che ostacola il successo, purificata dalle distrazioni irrazionali che allontanano dal traguardo. Tra le rarissime occasioni nelle quali CR7 si è concesso un ritorno all’umanità, c’è un racconto del suo rapporto con Ancelotti: «È una persona così sensibile. Parlava con noi tutti i giorni. Non solo con me (una precisazione necessaria, trattandosi pur sempre di Ronaldo che parla di Ronaldo, ndr) ma con tutti i giocatori. Si divertiva insieme a noi. È una persona incredibile. Auguro a ogni giocatore di avere l’opportunità di lavorare con lui perché è un uomo fantastico, un allenatore fantastico e mi manca molto». Zlatan Ibrahimovic, che solo in pochissimi momenti si alleggerisce di quello strato di (auto)ironia che è oramai lo schermo attraverso il quale osserva il mondo, quando parla di Ancelotti si fa serio davvero, persino nostalgico: «È l’unico allenatore che ho avuto capace di costruire un rapporto così perfetto con i suoi giocatori, persino più capace, in questo, di Mourinho. Quando abbiamo vinto lo scudetto, ci ha riuniti tutti in una piccola stanza in modo da poterci ringraziare uno a uno. Aveva un messaggio personale per ognuno di noi».
Un giorno Karim Benzema troverà anche lui le parole e racconterà di quella volta che Ancelotti si prese tutta la colpa del suo primo rigore sbagliato con la maglia del Real Madrid (fino alla partita contro l’Elche del 23 gennaio scorso, Benzema era a 16 rigori calciati e 16 segnati): «Sono stato io a dirgli che gli avversari ormai studiano i suoi rigori e che sarebbe stato meglio se stavolta avesse calciato in una direzione diversa dal solito. Lo ha fatto e ha sbagliato. Avrei dovuto tenere la bocca chiusa». È un’ammissione di colpa insolita per qualsiasi allenatore, tranne che per Ancelotti: con la sincerità concessa solo a chi non ha più niente da dimostrare, a chi gli chiede quale sia il segreto lui ormai risponde sempre che per lui tutto è cambiato nel momento in cui si è reso conto di essere «più bravo ad ascoltare che a parlare».