Linkiesta, 15 febbraio 2022
Per Netflix la donna è comunque vittima
È un ottimo momento per approfittarsene, essendo femmine. Lo si capisce da mille indizi, e anche dal fatto che, su Netflix, se ti chiami Anna e ti fingi un’altra sei comunque un po’ vittima, ma se ti chiami Simon e ti fingi un altro sei il male incarnato.
Shimon Hayut scopriamo che si chiama così dopo che ha già truffato un bel po’ di donne, nel “Truffatore di Tinder”. Donne non sveglissime, e già qui si apre il dibattito etico sempre valido da Wanna Marchi in poi: se ti fai truffare quando la truffa è così evidente, va incarcerato il cattivo per truffa, o vai interdetto tu per manifesta alloccaggine?
Simon Leviev, presunto erede d’un commerciante di diamanti, fa la bella vita (è una citazione di Oronzo di Temptation Island, lo preciso perché vi so poco preparati sui classici della letteratura). Va a prendere le donne in aereo privato, paga per tutti nei privé da cinquemila euro a tavolo, ha un atteggiamento verso la vita che certi napoletani della mia giovinezza avrebbero sintetizzato in «chill’ checcòst’ecchiù» (oddio, traslitterare il napoletano sarà appropriazione culturale?).
A nessuna di queste gigantesse del pensiero che poi spiegano in lacrime alla telecamera di Netflix che loro cercavano solo l’amore viene un sospetto mai: nessun ricco butta soldi in quel modo, nessuno che non abbia qualcosa da farsi perdonare (o qualcosa da nascondere) paga sempre lui per tutti.
Se “Il truffatore di Tinder” s’intitolasse in modo più neutro, qualunque spettatrice con due neuroni capirebbe comunque dopo tre secondi che Simon è un cazzaro. Loro no. Loro sono convinte d’essere finite in una commedia romantica.
Di “Inventing Anna” probabilmente sapete già tutto: se leggete stampa anglofona, nel 2017 avrete passato mesi a parlare dell’articolo da cui è tratto, quello che raccontava di come Anna Sorokina, fingendo di chiamarsi Anna Delvey, fosse riuscita a vivere a scrocco nel posto che più si picca di saper distinguere i ricchi dai poveri: Manhattan. Gallerie d’arte, alta finanza, alberghi fighetti: non c’è luogo fighetto newyorkese, tra quelli che avrebbero chiesto a me e a voi di passare dall’entrata di servizio, che non sia cascato nel bluff di Anna.
L’articolo del New York Magazine è la prima cosa che Shonda Rhimes annunciò d’aver opzionato quando firmò un contratto con Netflix. Ci saremmo dovute insospettire quando fece uscire prima Bridgerton, ma quella di Anna era una storia talmente pazzesca che eravamo convinte non ci potesse deludere. E invece “Inventing Anna” è robetta. (Ieri Netflix ha annunciato che è il titolo più visto sulla piattaforma: i giornali hanno riportato la vanteria autocertificata come fosse una verità verificata).
Accade, infatti, che Anna – che ha fatto esattamente la stessa cosa di Simon: usare l’apparente ricchezza per farsi pagare una vita da ricca dagli altri – sia una femmina. E quindi, nel postmoderno cavalcato da Shonda, ontologicamente vittima. La cosa principale che la serie tiene a dirci è che le donne sono comunque vittime. La giornalista che scrive di lei, ingiustamente vessata dai capi ed eroicamente intenta a chiudere l’inchiesta mentre le si rompono le acque. Le amiche truffate e troppo fesse per capirlo prima e troppo insicure per denunciarla dopo, facendo la figura delle ottuse. E persino Anna. Che forse ha avuto un’infanzia infelice, forse è stata costretta a mentire dall’eccesso di competitività del mondo degli affari a Manhattan, forse è una mitomane e ci crede davvero, ma comunque poverina, mica merita il carcere: mica è un uomo.
In “Inventing Anna”, è un’amica – lavora a Vanity Fair, Anna ha fatto addebitare sulla sua carta sessantaduemila dollari di vacanza, lei poi scriverà un libro sui suoi traumi di vittima d’una truffatrice – a far arrestare Anna, attirandola con l’inganno in un posto dopo aver segnalato la sua presenza alla polizia. Nel “Truffatore di Tinder”, è una fidanzata – l’unica ad aver capito che Simon è un bluff, e a essere abbastanza cattiva da essersi fatta dare tutti i suoi vestiti di marca dicendo che li venderà per aiutarlo, ed essendo invece determinata a venderli per rifarsi delle perdite – a far arrestare Simon, segnalando alla polizia su che volo si trovi e che falso nome ci sia sul biglietto.
L’avrete già capito: l’amica di Anna viene presentata come una stronza che tradisce l’amica e la manda in galera; la fidanzata di Simon è un’eroina, vendicatrice di tutte le donne tradite, coraggiosa testimone di giustizia e pilastro della società.
I due casi hanno gameti diversi e sono perciò oggetto di diversa attenzione etica. Ma una cosa hanno in comune. In nessuno dei due casi il pericolo è chi ti truffa, a meno che tu non sia così fessa da pensare che qualcuno ti copra di soldi senza avere un interesse a farlo.
In entrambi i casi, assai più insidiosi degli scrocconi attivi – che almeno hanno carattere – sono gli scrocconi passivi. I personaggi minori di due vicende in cui protagonisti e comparse giocano lo stesso gioco: quello a vivere una vita che non si potrebbero permettere.
Né Anna né Simon sono particolarmente inquietanti. Non quanto lo sono quelli (che nei casi in oggetto sono tutte femmine: quelle) che trovano perfettamente normale farsi pagare cene, viaggi, massaggi, vestiti. Salvo poi frignare quando scoprono che il gatto e la volpe non sono due benefattori.