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 2022  febbraio 15 Martedì calendario

La crociata rossa contro Pansa

Inutile parlare di memoria condivisa. Tempo sprecato. Una parte di italiani minoritaria, ma influente nel mondo della cultura, si rifiuta di accettare alcune verità comprovate. Un esempio. Mentre si celebra il Giorno del Ricordo della vittime delle foibe e dell’esodo, ci sono associazioni e addirittura università che organizzano convegni per ristabilire le falsità della propaganda comunista: le foibe come vendetta dopo la violenza fascista. In realtò, sul confine orientale, e non solo, il maresciallo Tito e i suoi seguaci organizzarono una pulizia etnica nei confronti degli italiani, tutti quanti, fascisti e no. In merito ci sono saggi (Raul Pupo e altri), romanzi (Pier Antonio Quarantotti Gambini), memorialistica (Enzo Bettiza, Nicolò Luxardo de Franchi). Chi non sa, non vuole sapere.
Altri argomenti tabù: il vasto consenso del Regime, anche tra gli intellettuali; la consistenza numerica della Resistenza; il ruolo fondamentale degli Alleati; il dubbio patriottismo delle Brigate Garibaldi, fedeli al Partito più che all’Italia; la dipendenza di Togliatti da Mosca; la collaborazione dei gappisti, sul fronte orientale, con i partigiani titini non solo in funzione antifascista ma anche in favore dei progetti espansionistici del maresciallo; il tatticismo della «svolta» democratica di Salerno, ordinata al Partito comunista da Josif Stalin; gli eccidi nel triangolo rosso a guerra finita, posteriori dunque al 25 aprile 1945.
Questi fatti, ampiamente documentati, non vanno giù ai nostalgici (talvolta inconsapevoli, per ignoranza) della propaganda comunista. Ancora adesso si bevono le equazioni che fanno coincidere il comunismo con l’antifascismo e l’antifascismo con la scelta della democrazia. No: accanto ai comunisti, in montagna, c’erano anche militari, liberali e cattolici; e per essere democratici non basta dichiararsi antifascisti, è necessario anche essere anticomunisti. È una ovvietà della quale si sente parlare, in Italia, da pochi anni...
Un ruolo fondamentale nella divulgazione, ma spesso anche nella scoperta, di questi fatti è stato ricoperto da Giampaolo Pansa, un maestro di giornalismo, un tipo che andava, non solo metaforicamente, dove i colleghi non volevano o non sapevano andare. Inutile elencare le inchieste, le interviste e gli scoop. Era anche un uomo prodigo di consigli con i giornalisti più giovani. Pansa e «la Grisendi» cioè la moglie Adele, erano una coppia formidabile. Giustamente tocca proprio «alla Grisendi» l’introduzione al libro di Giampaolo Pansa, Non è storia senza i vinti. La memoria negata della guerra civile (Rizzoli). Un volume prezioso e intelligente. L’antologia di pagine di Pansa è accompagnata da una parte di articoli e recensioni suscitate dal Sangue dei vinti e dai successivi titoli.
L’aggressione, non soltanto a parole, che dovette subire Pansa è indecorosa. Per che cosa poi? Per aver raccontato i venti mesi terribili della Guerra civile restituendo voce agli sconfitti. Non era una novità in assoluto ma questa volta la storia degli eccidi partigiani arrivava da un famoso e rispettato uomo di sinistra quale era Pansa; e lo stile accattivante, lontano dal «professorese», conferiva una forza micidiale alle storie. Il sangue dei vinti fu un bestseller e aprì un confronto sui grandi media. Fu dunque un salutare risveglio per le sonnolente coscienze italiane.
A Pansa ne furono dette di tutti i colori. Fu definito dilettante, falsario, copione e infine gli fu rivolta l’accusa delle accuse, quella che serve a buttare fuori dal dibattito pubblico chi non si conforma alla vulgata: fascista. Di più. Giorgio Bocca, in un’intervista che trovate in Non è storia senza i vinti emise una sentenza senza appello: «opportunista» e «voltagabbana». Lasciamo da parte le pure idiozie. Giampaolo Pansa fascista e voltagabbana? Ri-di-co-lo. Veniamo al «dilettantismo». Pansa fu indirizzato verso gli studi storici sulla Resistenza italiana da Alessandro Galante Garrone. Sì laureò in Scienze politiche con 110 e lode, e dignità di stampa, all’università degli Studi di Torino nel 1959. Tesi in Storia moderna e contemporanea intitolata La Resistenza in provincia di Alessandria (1943-1945). Relatore fu Guido Quazza. Il lavoro gli procurò il Premio Einaudi e la tesi uscì da Laterza nel 1967 col titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po. Nel 1959, invitato a un importante Convegno sulla Resistenza, a Genova, lesse una relazione (pubblicata integralmente in Il sangue degli italiani) nella quale analizzava le fonti usate dalla storiografia resistenziale, segnalando falsificazioni e falsità. Non solo. Il neo-laureato affermava, e questa era una novità, l’importanza di utilizzare anche fonti tedesche e fasciste. «Dilettante» a chi?
In Non è storia senza i vinti possiamo rileggere alcune delle pagine più belle di Pansa ma anche interviste inedite o parzialmente edite e soprattutto recensioni d’epoca. Tra i primi ad accorgersi della novità «scandalosa» del romanzo I figli dell’Aquila, che scoperchiava le storie dei repubblicani fedeli a Mussolini, ci fu Edmondo Berselli: «e per molti (...) parlare di guerra civile comporta ancora una intonazione inaccettabile, l’infrazione rispetto a una ortodossia, al monumento resistenziale, tragico ed eroico, che fonda la Repubblica». Pansa riteneva che anche le storie dei vinti dovessero far parte del patrimonio comune: altrimenti la Repubblica avrebbe mostrato le sue fragili radici.
Nel volume si alternano voci pro e contro, segnaliamo le puntuali recensioni di Pierluigi Battista, le interviste a Marco Tarchi e Giano Accame, le interviste a Pansa (da leggere quella firmata da Pietrangelo Buttafuoco) e gli interventi, tra gli altri, di Francesco Cossiga e Francesco Perfetti.