la Repubblica, 15 febbraio 2022
Non c’è una sola inflazione
Mentre la diplomazia europea è impegnata al massimo livello per disinnescare la crisi militare in Ucraina, Christine Lagarde, parlando al Parlamento Europeo a Strasburgo, ha allontanato il rischio di un rialzo immediato dei tassi di interesse. Non si tratta ovviamente di indecisione. Nonostante il rischio che i prezzi del gas naturale si propaghino all’economia, la Bce sta infatti fronteggiando un vero e proprio dilemma sulla politica monetaria. Nelle grandi regioni del mondo il rischio inflazionistico sta prendendo forme diverse che inducono differenti risposte da parte delle banche centrali. Negli Stati Uniti l’inflazione ha ormai raggiunto il 7,5% in base annua e deriva principalmente da un eccesso di stimoli fiscali e monetari. Il surriscaldamento dei prezzi rischia di innescare una rincorsa dei salari e ha portato la Federal Reserve a ipotizzare una serie di rialzi dei tassi di interesse nei prossimi mesi, per stroncare le aspettative di inflazione. Gli investitori discutono il numero dei rialzi nel 2022, quattro, cinque o addirittura sette, la dimensione del primo rialzo a marzo, ma la restrizione monetaria è ormai tracciata perché inevitabile a fronte dell’inflazione più elevata degli ultimi quarant’anni. In Asia, e in particolare nei Paesi avanzati dell’area, l’inflazione attuale e prevista per il 2022 rimane molto bassa, meno della metà di quella occidentale, e non si parla di aumenti dei tassi o restrizioni di politica monetaria. La divergenza dell’inflazione tra Usa e Asia, di cui si parla poco sui media, andrà studiata. Per quanto si capisce dipende da minori stimoli all’economia, da una diversa gestione delle catene del valore, dalla tenuta delle produzioni agricole e da una minore intensità energetica. In ogni caso la politica monetaria dal Giappone alla Cina alla Corea non è sotto pressione e l’unico rischio, secondo il World Economic Forum, può derivare dai prezzi dei trasporti. In posizione intermedia tra gli Usa e l’Asia si trova l’inflazione europea che oscilla intorno al 5%. Contrariamente agli Usa, da noi l’inflazione non pare per il momento un fenomeno macroeconomico, generato dagli stimoli fiscali eccessivi, né ha per ora innescato tensioni salariali. È piuttosto un’inflazione generata dall’aumento dei prezzi energetici e dalle strozzature nell’offerta di alcuni input dell’industria, in parte importati. Non appena questi aumenti rientreranno per aggiustamenti dell’offerta o della domanda, l’inflazione dovrebbe gradualmente riavvicinarsi al 2%. Naturalmente alcuni shock, come l’esplodere della crisi ucraina, che ieri appariva però meno probabile, potrebbero aggravare la situazione attraverso un aumento dei prezzi energetici, ma le origini dell’inflazione non paiono legate a un surriscaldamento dell’economia né sembrano essersi trasmesse ai salari. Di qui il dilemma della nostra banca centrale: alzare i tassi per stroncare le aspettative rischiando di compromettere la ripresa, oppure scommettere su un rientro dei focolai inflazionistici nel medio termine, con tutte le incertezze del caso. A molti osservatori pare che in Europa valga la pena di aspettare prima di prendere una decisione, osservando la dinamica delle aspettative e dei salari. Ovviamente gli effetti della nostra inflazione sono molto dannosi anche nel breve termine sulle famiglie, soprattutto con redditi bassi, e bisogna evitare che si trasformino in aspettative di inflazione generalizzata. Tuttavia, sino a quel momento, l’aumento dei tassi di interesse non è la misura appropriata e se possibile va evitato. Non far nulla, peraltro, può creare effetti perversi. In questo modo si giustificano la cautela della Bce, ribadita ancora ieri da Lagarde, e l’approccio del nostro governo ai prezzi dell’energia basato su una misura congiunturale come la detassazione e sulla diversificazione geografica degli approvvigionamenti, nonché, magari, fondato su interventi strutturali come l’aumento dell’estrazione del gas naturale in Adriatico. Detto questo, come ricordato in questi giorni dall’ex governatore della Banca d’Inghilterra Mervyn King, l’illusione di governare in dettaglio le ondate di aumento dei prezzi è una speranza vana. L’inflazione, infatti, dipende da fattori oggettivi, come la quantità di moneta o le strozzature dell’offerta, e da fattori psicologici come le aspettative. I governatori delle banche centrali non sono certo onnipotenti. Pensare che lo siano sarebbe insensato.