Anna Bandettini per "la Repubblica", 14 febbraio 2022
"QUESTA VOLTA L'OPERA D'ARTE SARETE VOI" – DAMIANO MICHIELETTO A VENEZIA CON UNA INSTALLAZIONE ("ARCHÈUS. LABIRINTO MOZART") PER LA BIENNALE – LO SPETTATORE È CHIAMATO A FARE UN CAMMINO DI SCOPERTA E INIZIAZIONE LUNGO UN ITINERARIO DI 160 METRI SEMPRE NEL BUIO, SALVO QUANDO ENTRA NELLE STANZE - IL 22 FEBBRAIO ALLA FENICE DEBUTTERÀ LA PRIMA OPERA LIRICA IN DIALETTO, LE "BARUFFE CHIOZZOTTE" DA GOLDONI, DI CUI È REGISTA E LIBRETTISTA -
Si inizia da lì, da un imbuto gigantesco, otto metri di altezza, che via via si restringe e porta in un labirinto buio dove comincia a prendere corpo che non sarà solo una mostra, né uno spettacolo ma un personalissimo viaggio, concreto ma irreale.
«Sarà come prendersi un tempo per sé, per fare una esperienza interiore», dice l'infaticabile Damiano Michieletto, regista d'opera che piace incondizionatamente o non piace affatto ma che si avvicina ai 46 lavorando sempre come un forsennato. In questi giorni è a Venezia, per una cosa un po' strana: sta costruendo, a Forte Marghera, 850 metri quadrati di ex fortezza ottocentesca in terra ferma («posto stupendo», dice), lo spazio di Archèus. Labirinto Mozart, un progetto speciale e interdisciplinare della Biennale, una installazione di arte, teatro, musica immersiva, da "percorrere e vivere".
Si aprirà, per i 1600 anni della città e del Carnevale, il 18 febbraio, a pochi giorni dal debutto assoluto sempre a Venezia, il 22 alla Fenice, della prima opera lirica in dialetto, Le Baruffe chiozzotte da Goldoni, di cui è regista e librettista esordiente insieme a Giorgio Battistelli, Leone d'oro per la musica alla Biennale 2022, autore della partitura.
Archèus è «uno spazio dove chi entra fa un'esperienza visiva e percettiva», dice il regista: si entra in una sorta di antro e si cammina nel buio, accompagnati solo dalle note del Flauto Magico elaborate elettronicamente. Lungo il percorso si aprono cinque stanze allestite "teatralmente" con una serie di sorprese, "wunderkammer", camere delle meraviglie, come le chiama Roberto Ciccutto, il presidente della Biennale di Venezia, entusiasta sostenitore del progetto, inserita nei programmi dell'Archivio Storico delle Arti Contemporanee (Asac) «che io considero la settima arte della Biennale - spiega il presidente - e che troverà sempre più vitalità, una volta ultimata la sede all'Arsenale.
Vogliamo infatti sviluppare sempre più l'interdisciplinarità tra i vari settori della Biennale», anche su iniziative di alta divulgazione popolare come vuole essere Archèus, a ingresso libero pensando anche alle famiglie, e aperto fino al 5 giugno, incrociando così anche la Biennale Arte e i suoi forse più esigenti visitatori.
Michieletto, qual è il perno del progetto? «Il pubblico, che è il vero protagonista. Come nel Flauto Magico Tamino e l'amata Pamina vagano alla scoperta della luce e della saggezza, così qui lo spettatore è chiamato a fare un cammino di scoperta e iniziazione, a cambiare il suo sguardo lungo un itinerario di 160 metri sempre nel buio, salvo quando entra nelle stanze».
Perché il buio? «Perché è un'esperienza sconosciuta. Dov' è oggi il buio totale? Siamo immersi nella luce, sempre anche di notte, c'è la spia della sveglia, del cellulare....Io volevo creare una rottura con la dimensione quotidiana della nostra vita. Di solito, poi, il buio è legato alla paura, invece è una cosa naturale, risveglia i sensi, a cominciare dall'ascolto della musica che risuonerà da fonti nascoste, da cercare perché come ne Il flauto magico anche nel cammino di Archèus c'è un aspetto ludico, la favola, lo stupore e, spero, la scoperta interiore».
Cosa succede nelle stanze? «La prima stanza, per esempio, suggerisce un trauma, una rottura con ciò che abbiamo lasciato alle spalle e c'è una automobile sfasciata dalla cui radio uscirà appunto la musica, poi via via sempre attraversando il buio ci saranno altre suggestioni, fino a una luce avvolgente, un grande uovo da cui rinascere. E da lì, spero si esca con la voglia di ricominciare».
Tutt' altra temperatura da quella di Le baruffe della Fenice. «Battiselli ha scritto una partitura dal ritmo martellante, nervoso, come lo sono gli umori dei chioggiotti chiusi, inquieti e litigiosi che Goldoni racconta. Ho solo aggiunto all'originale un prologo dove le parole del testo prese a caso e messe una di seguito all'altra, "can, sassin, vai in malora, frascona, sgagassera" sembrano un rap acido, perfetto per entrare nel mood della storia».
È sempre dell'idea di fare il suo primo film-fiction? «Lo farò, spero a fine anno. Un vero film, dopo il Gianni Schicchi che però è un film-opera. Prima mi aspettano mesi pieni: dopo Venezia, Parigi per Giulio Cesare in Egitto di Häendel, poi il Bolscioi con L'angelo di fuoco di Prokofiev e questa estate Caracalla, a cui tengo molto perché metto in scena La Messa di Bernstein, un'opera figlia del multiculturalismo, con street chorus, rock, blues... Io ci porterò anche delle gru per uno spettacolo contro i muri, anche mentali, che spero sarà potente».