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 2022  febbraio 14 Lunedì calendario

Intervista a Rosario Lo Bello

Tea, 5 anni, guarda il nonno e lo «ammonisce»: «Tu siediti qui!». Lui – come tutti i nonni del mondo – sorride ed esegue senza protestare. «Arbitro» del tenero incontro: «il signor Rosario Lo Bello da Siracusa», così come per un ventennio è stato annunciato dall’altoparlante degli stadi più prestigiosi.
La scena della nipotina che fa mettere sugli attenti l’attempato (ma sempre in forma) nonno Rosario potrebbe apparire come una sorta di legge del contrappasso. Ci fu un tempo infatti in cui Rosario – figlio d’arte del mitico arbitro Concetto Lo Bello (recordman delle «giacchette nere» con 328 partite di serie A e 93 gare internazionali) – ammoniva ed espelleva fior di campioni, come accadde nell’ormai famigerata «Fatal Verona» del 22 aprile 1990 quando spedì negli spogliatoi in rapida successione Van Basten, Rijkaard, Costacurta e mister Sacchi (ma di questa sciagurata partita, che costò lo scudetto al Milan, parleremo dopo: ndr).
Oggi Rosario, 77 anni, è un pensionato super attivo e pieno di passioni. Ogni giorno va nel suo studio di ex assicuratore e lavora al libro dedicato al padre: un papà che gli manca, pur rimanendogli sempre vicino. Concetto è lì, incorniciato alle sue spalle lungo la parete dei ricordi che fa da quinta a una stanza teatro di emozioni. Attaccate al muro ci sono le foto dell’amarcord di un sogno diventato realtà alla metà degli anni ’70. Per Rosario Lo Bello l’esordio in A porta la data del 18 maggio 1975 (Sampdoria-Fiorentina); da allora 195 direzioni nella massima serie, una carriera terminata («per sopraggiunti limiti di età») nel ’92 e impreziosita, nel 1983, con la nomina ad «arbitro internazionale» e l’assegnazione, nel 1986, del «Premio Giovanni Mauro» (l’«Oscar all’arbitraggio», a suo tempo vinto anche da papà-Concetto). Tutto documentato, tutto immortalato dai quadri della pinacoteca-Lo Bello, una galleria privata di ritratti che scaldano il cuore come una mostra impressionista: c’è l’immagine di Diego Maradona che protesta (con le braccia rigorosamente dietro la schiena in segno di rispetto); c’è l’istantanea di Paolo Rossi che si massaggia la coscia confessando al direttore di gara di essersi «strappato»; c’è lo scatto di Lo Bello junior, in versione guardialinee, che affianca Lo Bello senior nella sua ultima partita: 28 maggio 1974, finale di Coppa Uefa, Feyenoord-Tottenham 2-0 (Concetto aveva appena compiuto 50 anni, e anche questo resta un record imbattuto); Rosario che a centrocampo stringe la mano di Rivera, Mazzola, Zoff, Baresi, Scirea, Zico, Platinì, Albertosi, Riva e decine di altre leggende in pantaloncini corti.
Sulla scrivania spicca invece un pallone «Tango» con dedica e firma sbiadite dal tempo ma ancora decifrabili.
Signor Lo Bello, perché questa sfera di cuoio le è tanto cara?
«È il cimelio che mi sta più a cuore. Me lo regalò Maradona in occasione di un Napoli-Parma che segnò la mia centesima partita in serie A».
Quando parla di Maradona, si commuove.
«È stato il più grande di tutti. Anche di Pelè».
La fine di Diego è stata tragica.
«Non meritava di finire così. Ma la colpa è stata anche dei tanti sciacalli travestiti da falsi amici. Lo hanno spremuto, sfruttato fino all’ultimo giorno di vita».
Lei lo ha arbitrato in tante occasioni. Avete mai «litigato» in campo?
«Mai. Diego era, anche dal punto di vista disciplinare, un fuoriclasse. Con me è sempre stato un modello di correttezza. Io cercavo di tutelarlo dai tanti falli che subiva. Alcuni erano interventi cattivi, ma lui non si lamentava. Incassava, si rialzava senza protestare, riprendeva a fare le sue giocate geniali».
Un aneddoto legato al «Pibe de oro»?
«Sampdoria-Napoli. Al momento del sorteggio campo-palla mi accorgo di avere dimenticato la monetina negli spogliatoi. E allora dico a Diego sottovoce: Giriamoci dall’altra parte; lui mi guarda stralunato e mi fa: Ma perché? Cosa dobbiamo fare?. E io: Ho dimenticato la monetina, il sorteggio facciamolo a mano, col pari e dispari. Lui si mise a ridere e stette al gioco, così come il capitano della Sampdoria. Nessuno si accorse di nulla. Neppure i fotografi».
Ha arbitrato importanti competizioni internazionali. Perché in Italia gli arbitri sono più contestati rispetto all’estero?
«È un fatto di cultura sportiva. Il nostro è un Paese tradizionalmente ostile alle regole. Un’idiosincrasia alle leggi che si riflette anche nella realtà calcistica. La protesta esagerata, la simulazione di fallo, la polemica a ogni costo, sono tutti della stessa carenza di fondo: l’incapacità di accettare la sconfitta e di riconoscere le proprie responsabilità».
E così l’arbitro diventa un perfetto capro espiatorio.
«Noi rappresentiamo il semaforo rosso. Dobbiamo porre l’alt prima per evitare che accadano gli incidenti».
Il «semaforo rosso» è una metafora del cartellino dell’espulsione?
«Estrarre un cartellino rosso è per l’arbitro una mezza sconfitta. La dimostrazione di un’incapacità – a volte inevitabile – di prevenire l’incidente».
Perché usa il termine «inevitabile»?
«Sono convinto che quando i giocatori decidono di darsele di santa ragione, non c’è arbitro o cartellino che tenga. A quel punto si può solo sperare di portare a termine la partita con meno danni possibili».
Come accadde in quel drammatico Verona-Milan del 1990, la famigerata e super citata «Fatal Verona» dove i rossoneri dettero addio a uno scudetto ormai «sicuro».
«Nella storia degli scudetti persi in extremis dal Milan c’era stata un’altra Fatal Verona, con la partita-chiave diretta da mio padre il 20 maggio 1973. Alla luce di quel precedente, la mia designazione per quel Verona-Milan del 1990 fu quindi a dir poco improvvida da parte dell’allora capo degli arbitri, Cesare Gussoni. Premesso ciò, ribadisco che le espulsioni di Van Basten, Rijkaard, Costacurta e mister Sacchi, furono giuste e inevitabili».
Ce le descriva una per una.
«Van Basten, per un banale fallo subìto a centrocampo, si tolse la maglia, la gettò a terra e imprecando mi venne incontro in canottiera; Rijkaard si avvicinò a me, sputò a terra e poi mi sputò su una scarpa; Costacurta ebbe un atteggiamento violentissimo contro un segnalinee e Sacchi protestò in maniera esagerata».
I milanisti non l’hanno mai perdonata.
«In molti mi espressero solidarietà (salvo poi rimangiarsela successivamente). Con Gianni Rivera nacque una bella amicizia che dura tutt’ora».
Lei, di recente, ha querelato Van Basten.
«Per fare pubblicità al suo libro di memorie, ha ritirato in ballo quell’episodio di 30 anni fa, ipotizzando che avessi intenzionalmente danneggiato il Milan. E questo non posso accettarlo».
Ma sarebbe disposto a «far pace»?
«Certo. Io non serbo rancore a nessuno. Questo è un altro principio fondamentale dello sport: quando finisce una gara, qualsiasi screzio sia accaduto prima, lo si dovrebbe dimenticare. Stringendosi la mano».
Difficile intraprendere la carriera di arbitro, raccogliendo la pesante eredità di Concetto Lo Bello.
«Difficilissimo. Anche perché lui non è stato solo il principe degli arbitri, ma un modello in varie altre realtà: dirigente sportivo, sindaco, deputato democristiano per tre legislature. Ma ce l’ho fatta grazie alla sua caratteristica più importante: essere un padre-galantuomo».
Cioè?
«Era fedele all’etica di valori solidi. Diceva: non posso parlare di mio figlio perché se ne parlo bene potrei essere accusato di favorirlo, se ne parlo male lo danneggerei. Per questo non ha mai assistito a un mio arbitraggio e io non l’ho mai reso partecipe della mia attività».
Quindi Concetto Lo Bello non ha mai visto una partita del figlio Rosario?
«Una sola volta. Ero agli inizi e dirigevo una gara di serie D. Lui si era nascosto tra il pubblico, ma a tradirlo fu un colpo di tosse. Lo riconobbi immediatamente».
Nel ’74 uscì nelle sale cinematografiche il film «L’Arbitro», interpretato da Lando Buzzanca. Si disse che era ispirato alla figura di sua padre. Se lo ricorda?
«Eccome. Buzzanca volle incontrare papà, quasi per chiedergli il permesso di interpretare il suo alter ego. Insomma, una specie di benedizione. Papà sì divertì moltissimo, io meno».
E perché?
«L’arbitro del film aveva un figlio un po’ scemo che, guarda caso, aveva il mio stesso nome...».
In quell’epoca Concetto Lo Bello era al top della popolarità.
«Tanto in Italia quanto all’estero. I più grandi giornalisti del tempo gli dedicavano articoli entusiastici. Ma con Montanelli c’era un feeling particolare».
Ci racconti...
«Durante una partita della Fiorentina papà era stato accolto dalla tifoseria viola al grido di Du-ce! Du-ce!. Lui, come al solito, non fece un plissé e portò a termine la partita tra gli applausi. Il giorno dopo, Montanelli, grande tifoso della Fiorentina, ricamò un elzeviro memorabile».
Qual era la tesi di Indro?
«Montanelli vergò, da par suo: I miei concittadini sbagliarono quando, inviperiti e tumultuanti, cominciarono a gridare al suo indirizzo: Du-ce!...Du-ce!... No, Lo Bello non è il Duce. E anche se l’accostamento avesse qualche verosimiglianza, almeno ne andrebbero rovesciati i termini, perché è caso mai il Duce che può aspirare ad essere scambiato per Lo Bello, non viceversa».
Caspita.
«Ma non è finita qui...».
Allora dica...
«Aggiunge Montanelli: Per quanto mi riguarda, e malgrado il travaso di bile che mi ha procurato domenica scorsa, il giorno in cui fosse veramente minacciato da un piazzale Loreto, Lo Bello sappia che su un posto a tavola e un letto caldo in casa mia può contarci. Anche se sono sicuro che, di lì a due giorni, mi ritroverei sull’attenti di fronte a lui, a riceverne gli ordini per la cena».
La notizia della morte di Concetto Lo Bello fu uno choc per tutta Italia.
«Giunsero migliaia di necrologi. Ne ricordo uno ironicamente da antologia. Diceva: Immagino che quando Concetto Lo Bello incontrerà la morte, le dirà: magari per adesso mi arrendo, ma poi faremo i conti».
Anche Gianni Brera era un fan di Concetto.
«Le cito una sua frase: Un po’ Dionisio, tiranno di Siracusa, un po’ Abdel el Karim, pirata saraceno... Finisce che diverte più lui della partita. È Toscanini o Visconti, Von Karaian o Strehler».
Puo bastare, passiamo a Gian Paolo Ormezzano. Riferisca un passo della sua prosa...
«Che bello a Siracusa veder sorgere il sole con Lo Bello, o forse è lui che comanda al sole di sorgere».
Beh, qui siamo al peana nella sua forma più alta. All’adulazione allo stato puro... Passiamo ad altro: Concetto sarebbe stato favorevole al Var?
«Sicuramente. Ma a una condizione».
Quale?
«Che come unico dominus delle decisioni fosse rimasto l’arbitro in campo. Cioè lui».
Il ricordo più struggente legato a suo padre?
«Poco prima che ci lasciasse, a soli 67 anni. Ero accanto a lui in ospedale. Mi strinse la mano, felice di vedermi. Era molto malato e parlava a fatica. Mi allontanai un attimo dal letto e lui ne approfittò per sussurrare nell’orecchio di mia sorella: Digli di prendere subito l’aereo e di andare a fare il suo dovere. Il giorno dopo ero all’Olimpico a dirigere il derby Roma-Lazio. Il modo migliore per rendere omaggio al principe degli arbitri e a un padre indimenticabile».