La Stampa, 14 febbraio 2022
I bambini che si ammalano di leucemia o linfomi
Quando ho conosciuto Paola aveva sette anni e un pallore strano. Era bianca bianca con i ricci neri, facevamo insieme la seconda elementare e quel che ricordo è che spesso mancava. Doveva curarsi, eravamo all’inizio degli anni ’80. Paola era debole, non giocava con noi, la venivano a prendere sempre prima, le davano il posto d’onore quando c’era da recitare una poesia. Era sempre al primo banco, guardata a vista dalla maestra, fragile che temevi di poterla spezzare se le andavi vicino. A noi faceva paura.
Ci faceva paura il dolore e ci faceva paura la malattia. Eravamo bambini e quello era il confine: la sofferenza. Così Paola era in classe come un fantasma e a pensarci oggi non riesco a immaginare qualcosa di più ingiusto e terribile. Sono passati quarant’anni e proprio quarant’anni fa è nata in Italia, a Bologna, un’associazione che si chiama Ageop. L’hanno creata alcuni genitori di bambini ammalati di cancro. L’hanno fatta crescere fino a farla diventare una speranza non solo per i bambini di Bologna e provincia. Non solo per l’Emilia-Romagna. Ma per l’Italia intera, i Paesi balcanici, la Romania, il Marocco. Perché Ageop aiuta in tutti i modi possibili i bambini come Paola e le loro famiglie. Paga le spese di viaggio verso il Policlinico Sant’Orsola; il soggiorno in strutture sicure dal punto di vista sanitario per tutti i mesi necessari. Dà supporto psicologico ai genitori, li aiuta – quando serve, e spesso serve – nella ricerca di un nuovo lavoro. Di associazioni come questa ce ne sono, in Italia e nel mondo. Fanno tutto quel che può fare il terzo settore per i bambini malati di cancro, vivendo grazie a donazioni e bandi di enti locali, fondazioni, Unione europea. Non bastano però.
Perché quel che serve – e la giornata mondiale contro il cancro infantile si celebra domani, martedì 15 febbraio, per ricordarlo – sono due cose che nessuna associazione è in grado di garantire da sola: servizi sul territorio e ricerca scientifica. Per i bambini malati di cancro non ci sono farmaci specifici. Ci sono gli antitumorali degli adulti, dati in base al peso. Ma il loro organismo non è quello di un piccolo adulto, gli effetti collaterali di alcune sostanze sono spesso invalidanti e possono compromettere la crescita e la stessa vita anche nel caso si superi il cancro. Serve concentrarsi sulle molecole che agiscono sul genoma, che attaccano le cellule malate e non quelle sane, ma su tutto questo le case farmaceutiche e gli Stati investono troppo poco perché i tumori infantili sono considerati “rari”, sebbene siano la seconda causa di morte per malattia in età pediatrica. E sebbene comportino un dolore indicibile e un’indicibile diseguaglianza.
Basta guardare i dati per rendersene conto: ogni anno nel mondo si ammalano di cancro più di 400 mila bambini e adolescenti sotto i 20 anni. Il loro destino è segnato, più che da ogni altra cosa, dal luogo in cui nascono. Nei Paesi ad alto reddito, oltre l’80% di loro guarisce e sopravvive. Un traguardo importantissimo raggiunto dalla scienza e dalle istituzioni che si occupano di salute pubblica. Nei Paesi a basso o medio reddito, però, a causa dell’impossibilità di accedere a strutture sanitarie che garantiscano diagnosi e cure adeguate, le percentuali si capovolgono: meno del 30% dei bambini che si ammalano di cancro raggiungono l’età adulta. Un anno fa, la Commissione europea ha deciso di istituire la “Helping Children with Cancer Initiative” per garantire a tutti i bambini accesso rapido a screening, diagnosi, trattamenti e presa in carico. È stato anche istituito un registro oncologico delle disuguaglianze, ma c’è ancora tantissimo da fare.
Nel nostro Paese ogni anno si ammalano di linfomi e tumori solidi o leucemia oltre 1500 bambini nella fascia di età che va da 0 a 14 anni e oltre 900 adolescenti. Anche da noi, l’80 per cento circa guarisce. Resta però per tutti il problema di accesso a farmaci innovativi che possano lenirne le sofferenze. Resta anche per loro, e per i più sfortunati di loro, il problema delle terapie del dolore. E ci sono diseguaglianze anche qui: Francesca Testoni, direttrice di Ageop ricerca, responsabile delle attività di assistenza e accoglienza di questi bambini nel reparto di Oncoematologia pediatrica del Sant’Orsola, non riesce a togliersi dalla mente la storia di una ragazzina meridionale arrivata a Bologna dopo un anno di sofferenze. Aveva terribili mal di schiena, era stata curata per tutto, nessuno però – neanche dopo gli esami fatti – si era reso conto che aveva un cancro ai reni per il quale doveva essere subito operata. Quando ha cominciato le cure per il tumore e le metastasi, il dolore era talmente forte da doverla sottoporre a Morfina. Adesso per disperazione, per paura, per cercare di darla una speranza, la sua famiglia si è trasferita a Bologna.
Le storie come questa sono moltissime e fanno partire una catena di solidarietà che sorprende: ad Ageop, a Natale scorso, è arrivata una donazione dai carcerati della Dozza. Sono venuti in contatto con i genitori dei bambini malati attraverso alcuni progetti di cucito per le madri. “Sappiamo che è poco, ma volevamo cercare di dare una mano anche noi”, hanno scritto nel messaggio che ha accompagnato la raccolta fondi. Volevano fare qualcosa per quei bambini. Anche perché sanno quanto in pandemia tutto sia stato più difficile.
Ai tempi del primo lockdown, a Bologna era arrivata una ragazzina che chiamiamo con la sua iniziale: T. Veniva da Brescia, dove tutto si era fermato per via dell’emergenza Covid-19. Tutto, anche quello di cui lei aveva bisogno per sopravvivere. A T. serviva un trapianto di midollo osseo, ma le strutture sanitarie a Brescia erano completamente sovraccariche per colpa dei contagi e del numero dei malati in terapia intensiva. Il reparto di oncoematologia pediatrica del Sant’Orsola la accoglie. T. va a vivere con la famiglia nell’appartamento numero tre della casa di via Siepelunga e lì rimane fino alla fine dell’estate. Una casa col giardino, dove ci sono altri bambini con cui giocare, dove può stare all’aperto, nei giorni migliori.
Sono appese a un filo, queste vite. E a volte quel filo rischia di spezzarsi per colpa della burocrazia. Com’è successo a un bambino marocchino in attesa, anche lui, di un trapianto. Dal Marocco doveva arrivare A., il fratello maggiorenne e potenziale donatore. Ma il suo viaggio è rimasto bloccato per settimane per via dei visti sospesi. È dovuto intervenire, grazie all’azione dei volontari, che non si sono dati per vinti, il ministero della Salute. C’è voluto il tampone, il tempo della quarantena, un viaggio che passasse dalla Spagna perché i voli dal Marocco erano interrotti. Adesso A. sta facendo gli esami di compatibilità, il fratello ha una speranza. Ma sono servite settimane, pazienza, paura, un’assistenza costante che solo il terzo settore è per ora in grado di fornire.
«I reparti che curano i tumori infantili non possono essere cattedrali nel deserto», spiega Francesca Testoni. Serve un incrocio complesso di discipline per prendersi adeguatamente cura di questi bambini. Serve però che su tutto il territorio nazionale ci siano servizi di screening e di controllo adeguati. Che ancora non sono abbastanza diffusi, costringono a viaggi lunghi, costosi, difficili al di là dell’immaginabile.
Torno a 40 anni fa e parlo con G., che quel reparto del Sant’Orsola lo ha conosciuto bene: «Ero molto piccolo, ma ricordo benissimo la prima sera che scoprimmo il tumore: il pronto soccorso, la luce delle lampade, il dottore che mi faceva dei segni col pennarello per farmi la TAC. Mi ricordo che ogni volta che da Piacenza venivamo a Bologna, quando arrivavamo in tangenziale cominciava a farmi male la pancia e mi ricordo che ogni volta che me ne andavo dall’ospedale per qualche giorno, chiedevo ai dottori: “La prossima volta cosa mi fate?”. Era un modo per arrivare preparato la volta dopo».
Si ricorda, G., che era «terrorizzato dalle lastre con il liquido di contrasto: mi portavano giù e poi sia mia mamma che il tecnico radiologo uscivano. Stavo lì da solo per qualche minuto, aspettando che da un’altra porta entrasse l’altro medico che mi faceva la flebo, per poi fare la lastra. Quei momenti di attesa da solo mi terrorizzavano». Ha due cicatrici sulla mano destra. «La vincristina (un farmaco antitumorale, ndr) era uscita di vena e mi aveva ustionato la mano. Non ricordo il momento in cui accadde, ma ricordo le croste che quando giocavo saltavano via facendomi sanguinare. Queste cicatrici mi servono, a volte le guardo e le tocco, mi ricordano, più del segno sulla pancia che ho quasi dimenticato, perché sono quello che sono».
«Ero piccolo e ai bambini piccoli interessa solo una cosa: giocare! E in ospedale si giocava tantissimo. Avevo tanti amici: Davide e Gianni purtroppo non hanno avuto la mia stessa fortuna, se ne sono andati un po’ di tempo dopo essere usciti dall’ospedale. Martina l’ho rivista quando avevo circa 8 anni, mi spiace aver perso le sue tracce. Ivan non so se ce l’ha fatta o no, non ricordo quanti anni avesse, gli mancava una gamba, aveva una protesi e andava come un treno. Poi c’era Ambra, anche lei non ce l’ha fatta. Però quando io ero lì loro c’erano, erano bambini e bambine e giocavamo insieme, e quella era la cosa importante. Mi ricordo del dottor V., con cui facevo le partite a briscola. Mi ricordo dell’infermiere Silvio, che tutte le sere passava col carrello del tè e gridava per i corridoi: “Coca cola, aranciate, panini”. Mi ricordo di Valeria, io adoravo Valeria, tutti i giorni ci faceva il test della glicemia nella sala del Day Hospital, e ogni volta ci regalava un trasferello».
G. ricorda gli “alberi da corsa”, il carrello con le flebo con cui correva nei corridoi; il carnevale e Davide in braccio alla sua mamma – una delle fondatrici di Ageop – vestito da robot; e ricorda la vita dopo l’ospedale, che è stata dura. Ma dice che ogni giorno, nonostante tutto, continua a ringraziare per aver capito quant’è prezioso quello che ha oggi. Il futuro che ha avuto in regalo. Il presente, che nessuna cicatrice potrà togliergli.