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 2022  febbraio 14 Lunedì calendario

Intervista a Charlotte Gainsbourg

Il suo lato oscuro, quello dei film disturbanti di Lars von Trier, sembra lontano. L’inquietudine sarà sempre il suo abito su misura, ma Charlotte Gainsbourg appare come pacificata, un’ombra fragile abitata dalla luna e dal sole, e avvolta dal suo sorriso timido. Figlia dell’eccesso, di genitori che andavano al di là della dimensione d’artista. Il padre era Serge Gainsbourg, lo chansonnier edonista che fece della propria vita un’opera d’arte, scomparso troppo presto; la madre è l’eros fuori da ogni schema di Jane Birkin, con cui si è davvero capita filmandola in un documentario che portò a Cannes. «Mio padre diceva che la vera musica è quella classica, mia madre non si è mai vista abbastanza brava…E che con mio padre erano ubriachi e felici». Di festival in festival, alla Berlinale Charlotte Gainsbourg è protagonista di The Passengers of the Night di Mikhaël Hers. Ne parla con la sua voce pastello, così piena di enigmi irrisolti.
Da dove parte la storia?
«Il 10 maggio 1981 fu una notte speciale in Francia. La storica vittoria di Mitterrand presidente. La folla per le strade, il clima di speranza, il cambiamento. Ma Elisabeth deve pensare a se stessa e ai suoi due figli adolescenti dopo che il suo matrimonio va in pezzi. Trova lavoro di notte come centralinista che filtra le telefonate in un programma radiofonico di Emmanuelle Béart, e lì incontra una teenager problematica, solitaria come lei, che non appartiene a nessuno e porta nella sua casa. Uno spirito libero. Scomparirà, lasciando una traccia profonda nella sua vita e in quella dei suoi figli».
Cosa le piace di Elisabeth?
«Che è vulnerabile, solida, determinata, naïf… Si deve reinventare la vita, quell’emancipazione che richiede una forza non comune. Ho usato la mia timidezza e le mie debolezze. All’inizio è sopraffatta, poi riscopre una sua serenità e accetta la vita di ogni giorno. È un film delicato, intimo, personale. Cosa mi ha attratto? Non lo so, io scelgo per istinto, non ci penso troppo, scopro tutto al momento di fare le cose, imparo ogni volta, in questo non sono un’attrice professionista, leggo i copioni come una principiante. Mi piaceva l’idea di tornare agli anni 80, mi ha riportato al sogno di diventare attrice, senza osare di dirlo».
Cosa voleva dimostrare attraverso il cinema?
«Con i film mi sono creata una famiglia tutta mia, volevo condividere la vicinanza che mia madre ha con le mie sorelle, Kate (si uccise nel 2013 gettandosi da una finestra, ndr) e Lou. I miei si sono separati quando avevo 9 anni, questo ha creato una distanza tra noi. Mia madre l’ho amata senza darlo a vedere, non ho mai fatto capire quanto avessi bisogno della sua presenza. Le ho proposto il documentario su di lei, Jane by Charlotte, per trascorrere del tempo insieme. Quando le ho fatto domande troppo dirette, all’inizio si è ritirata, ha pensato che stessi cercando di farle venire i sensi di colpa».
I miei genitori
si sono lasciati quando
io avevo
nove anni
Papà era sempre insoddisfat-to, diceva che la vera musica
è quella classica
E poi?
«Facendo un salto indietro, dopo la morte di Kate sono scappata, mi ero trasferita a New York, erano gli anni di Obama. Lì mi hanno conosciuto per ciò che facevo, non ero più la figlia di. È arrivato il Covid e ho avuto paura, io ero in USA, Yvan (Attal, stanno insieme da 31 anni, lei lo chiama “il mio marito non marito”, ndr) a Parigi. Assurdo. E non volevo che mia madre si potesse trovare da sola nell’eventualità del contagio. Così sono passata dall’energia incredibile di New York alla campagna francese. Non c’è una città in cui mi senta a casa».
Si mette in discussione...
«Amo lottare, mettermi in discussione. Volevo fare tante cose, tra cui il museo per mio padre… Tutto per aria. È allora che ho ritrovato mia madre. D’un tratto le ho chiesto quello che volevo, l’insonnia, i démoni con cui combatte da una vita»
Ed è venuto fuori un ritratto intimo e personale.
«Sì, la mia prima prova di regia. Ma il debutto non era la priorità. Ognuno ha un’immagine di mia madre da giovane, io non volevo restituire quella stereotipata ma raccontarla com’è oggi. Con mio padre il rapporto era naturale e gioioso, fu lui a spingermi a cantare insieme Lemon Incest. Con lei era più problematico, diceva che quando avevo 12 anni ero una specie di estranea, lei non mi ha mai visto piccola, io volevo essere perfetta per lei. Non ho mai capito perché ci fosse questa distanza, per questo ho fatto quel film. È una dichiarazione d’amore per lei».