Corriere della Sera, 14 febbraio 2022
Intervista a Laura Laurenzi
Laura Laurenzi, lei fa la giornalista da più di mezzo secolo. «Cominciai da abusiva a Momento sera. Lavoravo gratis, quando arrivava l’amministratore dovevo nascondermi, eppure mi sentivo una privilegiata: prima o poi mi avrebbero assunta».
A Repubblica i redattori elessero a voto segreto la più bella: vinse lei.
«Non ero l’unica vincitrice e comunque nessuno me lo disse. Lo scoprii solo quando Franco Recanatesi, il caporedattore centrale, lo scrisse nel suo libro. Era passato troppo tempo perché potessi arrabbiarmi».
Vicedirettore era Giampaolo Pansa.
«Leggeva tutti i pezzi dalla prima all’ultima riga e ci urlava dietro: analfabeti, somari, ignoranti! Si placava a tarda sera, quando telefonava in Piemonte alla moglie, al figlio e al cane Muso».
Al cane?
«Con i familiari era di poche parole, ripeteva sempre: “Dai, passami Muso!”».
Com’era Scalfari come direttore?
«Fantastico. Mi affidava i servizi che non voleva fare nessuno: matrimoni e grandi amori. Il primo fu la storia tra Togliatti e la Iotti, di cui allora si parlava solo sottovoce. Mi spedì a bordo della Vespucci, fece lui il titolo: Una giornalista e quattrocento marinai».
E la mandò a raccontare le perversioni di New York.
«I locali sadomaso mi fecero una certa impressione. Un ragazzo mi chiese: posso leccarle la suola degli stivali?».
Com’erano i rapporti tra Montanelli e Scalfari?
«Montanelli lo prendeva un po’ in giro. Mi chiedeva: “Ma davvero Eugenio apre la riunione stringendo la mano al caporedattore, come il direttore d’orchestra con il primo violino? Io non sarei capace di fare queste cose”».
In «Mai in prima persona», il suo nuovo libro, lei racconta che la vita di Montanelli era divisa tra due donne.
«A Roma con la moglie, Colette Rosselli, e a Milano con un’altra signora, di cui non si sapeva quasi nulla».
Colette però sapeva. Non era gelosa?
«Certo. Diceva che non si può amare senza gelosia; tutto sta in come la si gestisce. Lei non era tipo da scenate: “Sono alta un metro e ottanta, se mi agitassi sembrerei un mulino a vento” sorrideva. Gli incontri con Indro le apparivano viaggi all’estero, di quelli che ogni tanto è bello fare».
Vivevano in piazza Navona.
«Con le portefinestre chiuse, come se fossero stanchi di quel meraviglioso panorama. Si cenava molto presto, poi si saliva a bere un bicchierino di vin santo: alle dieci, dieci e un quarto al massimo, tutti a casa, con grande sollievo di Indro. In quella casa viveva spesso anche la sorella di Colette, Jolanda, la pittrice: ma stava sempre chiusa in camera, nessuno l’ha mai vista».
Colette si firmava Donna Letizia. Era un’arbitra di eleganza.
«Mi rivolsi a lei quando Pietro Barilla mi regalò una collana d’oro massiccio di Bulgari, con un biglietto terribile: “Cara Laura, con questa catena preferirei strozzartici”».
Perché?
«Avevo raccontato la storia di Barilla in un libro, Vita da ricchi. Erano 32 interviste a nababbi. Pietro ne usciva benissimo: aveva venduto l’azienda e si era trasferito ai Caraibi, ma dopo venti giorni si era già stancato. Non ne poteva più di aragoste, le avrebbe tirate contro il muro, aveva nostalgia della polenta. Soprattutto, sentiva di non contare più nulla. Così ricomprò la fabbrica, nonostante Cuccia gli avesse consigliato di lasciar perdere. E inventò il Mulino bianco. Mai conosciuto un uomo così generoso: un giorno a Cortina vide Marta Marzotto in gioielleria che provava un paio di orecchini da 170 milioni di lire. Lui entrò e declamò: gli orecchini sono della contessa, è il mio regalo di Natale».
Perché allora Barilla voleva strozzarla?
«Nel libro la sua storia veniva subito prima quella di Saro Balsamo, intitolata “fronte del porno”: Balsamo era diventato ricco con le riviste a luci rosse. Barilla si offese e mi manifestò in quel modo il suo disappunto. Allora telefonai a Colette: cosa dovevo fare?».
Risposta?
«Attimo di esitazione. Pensavo fosse caduta la linea. Poi arrivò la sentenza: “Restituzione immediata!”. Colette sapeva come comportarsi. Una volta le avevano regalato un’aragosta: lei la liberò nella fontana del Bernini».
Colette non amava Fellini.
«Lui la chiamava Colettona. E le propose un cameo ne La dolce vita: la parte di un’aristocratica libidinosa. Lei ovviamente rifiutò».
Maradona
Mi fece cacciare dal suo matrimonio, la sua auto passò tra due ali di folla che la prendevano a calci e sputi. Anche perché era una Rolls-Royce appartenuta a Goebbels
Neppure Anita Ekberg amava Fellini.
«Ne parlava come di un predatore sessuale. Leggendaria la sua massima: “Io non è interessata a pompetto”».
Che ricordo ha di Marta Marzotto?
«Diede una festa da 1.600 invitati per la figlia Diamante nel castello Odescalchi di Bracciano illuminato a giorno dalle fiaccole. Era il 7 luglio 1981. Infuriava il terrorismo, due giorni prima le Br avevano ammazzato Giuseppe Taliercio, il capo del Petrolchimico di Marghera. Marta fu molto criticata. Lei disse: ho avuto un’infanzia senza favole, e ho voluto regalare una favola a mia figlia».
Lei fu tra i primi ad arrivare in via Fani…
«Salii sulla berlina di Moro, mi sedetti nel posto dietro a quello di guida, accanto a dove era seduto lui. C’era una pila di carte, le sfogliai: erano le tesi dei suoi studenti di procedura penale. Arrivarono i carabinieri a farmi scendere. Contai i bossoli. Un rigagnolo di sangue continuava a scorrere sul marciapiedi».
… E parlò con Alfredino Rampi, prigioniero nel pozzo.
«C’era un vigile del fuoco, Nando Broglio, che con il microfono e la cuffia conversava con il bambino, per tenerlo sveglio. La mattina del secondo giorno, distrutto per la notte insonne, si tolse la cuffia e me la passò: “Ci parli un po’ lei, che almeno è una donna”».
Cosa disse ad Alfredino?
«Di non avere paura, che tutto sarebbe finito presto, che sarebbe arrivata la mamma. Erano davvero convinti di salvarlo. Lui si lamentava per il freddo, per il buio. È un ricordo terribile. Vorrei tanto averlo dimenticato».
Altro suo direttore: Gaetano Afeltra.
«Celebre per le desinenze creative. Mi chiamava Lille e non ho mai capito perché. Dovevo scrivere un articolo sui comunicati delle Brigate Rosse, e lui telefonava: “Lille, sfume”. Ma direttore cosa sfumo, sono testi scritti, mica posso cambiarli… “Lille, ti ho detto: sfume!”».
Memorabile la sua intervista a Silvana Pampanini.
«Disse: tanti mal di testa, pochi uomini. Lasciò intendere di essere ancora vergine; non ho mai capito se stesse scherzando o se fosse seria».
Lei si imbucò al matrimonio di Maradona.
«Era stato papa Wojtyla a convincerlo a sposarsi: aveva già due bambine. Fece il volo di andata con un cartello al collo: “Io sono single, è mia moglie che si sposa”. Alla cerimonia civile ero l’unica giornalista, e lui mi fece cacciare. Non è vero che tutti gli argentini lo amavano, anzi, la sua auto passò tra due ali di folla che la prendevano a calci e sputavano sui finestrini; anche perché era una Rolls-Royce Phantom del 1938 appartenuta a Goebbels, il gerarca nazista. Il giorno dopo ci fu il matrimonio religioso. Il banchetto andò avanti sino alle otto del mattino».
Si imbucò pure a una festa di Berlusconi…
«Mi chiese se il lifting era venuto bene. Lui non era soddisfatto, e in effetti l’occhio destro era più gonfio e meno mobile del sinistro».
… E alle nozze di Pavarotti.
«Con la mia collega e complice Maria Corbi ci dicemmo che per passare da musiciste dovevamo indossare qualcosa di eccentrico. Maria aveva un enorme colbacco rosa, io una spilla di Vandea in simil diamanti con la croce conficcata nel cuore. Ci fecero entrare. Finimmo al tavolo con un tizio dall’aria familiare, con gli stivaletti e la basetta feroce. Quando Pavarotti chiamò i suoi amici artisti per cantare, il tizio si alzò. Era Bono degli U2».
Poi ci sono i matrimoni reali.
«Tra Carlo e Camilla fu vero matrimonio d’amore. Felipe di Spagna ha sposato una repubblicana divorziata; Haakon Magnus di Norvegia una ragazza madre che aveva avuto un bambino da un trafficante di droga; Guglielmo d’Olanda la figlia di un ministro del sanguinario dittatore argentino Videla; Victoria di Svezia il suo personal trainer».
Non ci sono più i matrimoni di una volta.
«A Diana non spiegarono che una regina non è predestinata a una vita felice, anzi dovrà affrontare crudeli infedeltà. Kate mi sembra meglio preparata. Charlene di Monaco decisamente no».
E Meghan Markle?
«Mai vista tra due sposi tanta attrazione fisica come tra Meghan e Harry. Ma è lei che comanda».
Nel libro parla di molte storie tranne la sua: con Enzo Bettiza, amico e collega di suo papà Carlo Laurenzi. È vero che suo padre si arrabbiò?
«All’inizio un po’ sì, ma poi lo accettò; anche perché ero incinta. E papà stimava molto Enzo».
Direttori
Pansa ci urlava dietro, si calmava solo quando riusciva a parlare con il suo cane. Scalfari con me fu fantastico: mi inviò sulla Vespucci, ero da sola tra 400 marinai
Come vi conosceste?
«A Bruxelles. All’inizio non credevo che potessimo avere un futuro. Ma lui mi seguiva dappertutto. Il giornale mi mandava in Svezia a raccontare come si fa un Nobel, e lui era là. Mi diceva: una coppia non è una coppia senza un bambino, e ne abbiamo avuti due, Sofia e Pietro; una casa non è una casa senza un gatto, e ne abbiamo presi tre. Per trent’anni è stato totalizzante. Mi sono sentita amata in un modo spropositato».