la Repubblica, 14 febbraio 2022
La madre mostruosa di Valeria Bruna Tedeschi
BERLINO – Valeria Bruni Tedeschi porta alla Berlinale, in concorso, nel bel film Laligne di Ursula Meier, un ritratto di madremostruosa eppure empatica: una pianista che ha lasciato la carriera per la maternità, cosa che nonsmette di ricordare alle figlie. Una di loro l’ha picchiata, ed è stata condannata a stare per tre mesi a cento metri di distanza dalla loro casa, una linea che la sorellina traccia nell’area circostante con la vernice azzurra. È l’inizio di un viaggio nella complessità delle dinamichefamiliari cheporterà a un ribaltamento del giudizio. «Della sceneggiatura mi ha colpito la visione potente della regista, violenta e allo stessotempo tenera, due coseche insiememicommuovono». Anche nella sua madre egoista, che però ha trasmesso alle figlie l’amore per la musica, ci sono violenza e tenerezza. «Sì, è un personaggio mostruoso e perciò interessante, come lo è sempre per un’attrice lavorare sui mostri interiori ed esteriori. Ma è anche tenero e con qualcosa di miserabile. Mi interessa capire da dove vengono la violenza, la cattiveria, l’egoismo, da quale posto dell’infanzia. E poi il lavoro con il pianoforte mi interessava, mi legava di nuovo, in modo semplice, a mia madre, alla mia infanzia, al mio rapporto con questo strumento. Il piano è un posto di meditazione, c’è un corpo a corpo con lo strumento, ma è anche un rifugio da cui gli altri sono esclusi. Mi ha ispirato un documentario su Martha Argerich realizzato dalla figlia, ho percepito come per lei l’essere una pianista abbia escluso l’essere madre. Mi incuriosiva il conflitto tra arte e maternità». Da tempo viviamo distanziati. Il film racconta anche il nostro bisogno di contatto fisico. «Sul set, durante la pandemia, non capivo quanto il film parlasse di oggi. Qui alla Berlinale l’ho compreso. Sul tappeto rosso per le foto io e la regista ci siamo abbracciate: “Non toccatevi!”, ci hanno urlato, come se stessimo commettendo un crimine. Ma questo toccarsi è essenziale. Hanno sperimentato che i bebè a cui davano da mangiare, ma senza toccarli o parlare loro, si spegnevano, anche se apparentemente avevano tutto. L’essere umano ha bisogno di essere abbracciato, di sentire la voce umana. La mancata carezza della madre alla figlia, a fine film, il non chiedere scusa, è la tragedia delle famiglie». Alla Berlinale ci sono film che raccontano la libertà e la legittimità di donne mature di vivere la propria sessualità: si sono messe in gioco, ad esempio, Emma Thompson e Juliette Binoche. «È una cosa nuova, nel cinema. Importante. Ogni tanto ci sono cose belle, nuove, che succedono nel mondo, non solo cose orribili che ci chiudono ma libertà che si aprono, tabù che si smuovono, come la legittimità dell’essere umano di vivere delle storie d’amore, di sesso, a qualunque età. Il corpo delle donne mature è spesso stato rappresentato come qualcosa di distorto, da nascondere, di non bello. A tutte noi viene chiesto di rifarci, tirarci, come se la bellezza non esistesse se non nella giovinezza. Questo è legato alla visione della morte nella nostra società; in altre, le persone anziane sono considerate belle e preziose. Ma spero che questo stia cambiando». In questi giorni esce in Italia “Parigi, tutto in una notte” di Catherine Corsini. Nel mezzo degli scontri con i gilet gialli, in un pronto soccorso, s’incrociano storie diverse: il suo personaggio cerca di non farsi lasciare dalla compagna. «Per questa coppia non ho lavorato sull’omosessualità, ma sull’amore. Sono un donna che cerca di tornare con chi la sta abbandonando. Mi interessava il tragicomico di quel film, la battaglia di un personaggio, il suo rincorrere qualcosa e il suo inciampare. Mi piace inciampare. Il film è anche un microcosmo in cui ci sono incontri e persone di classi sociali, storie, dolori diversi. E tutti questi dolori, queste solitudini, sono ugualmente importanti». Il prossimo progetto? «In primavera sarò in Italia per girare con Ginevra Elkann e anche Valeria Golino un bellissimo progetto che mi sta a cuore. Di Magari, il suo film d’esordio, mi avevano colpito la semplicità, l’onestà, la tenerezza, il dolore non ostentato, la poesia, il legame con la sua infanzia». Quanto pesa nelle sue scelte la voglia di lavorare con l’altra Valeria? «Sono stata felice di filmarla e vorrei farci un altro film. Mi piace lavorare con le persone della mia vita: mia madre, mia figlia; Valeria è come se fosse di famiglia. Girare con loro dà senso a tutto». Soddisfatta del montaggio del suo film, “Les Amandiers”, sugli anni alla scuola di recitazione di Chéreau? «Soddisfatta non so, eccitata…». Che momento è della sua vita? «Sono concentrata: sui miei figli, sul lavoro, sul trovare la serenità, che è una cosa importante. Trovare il modo di andare avanti non come una pazza, ma con saggezza». Cosa la rende serena? «Alcuni pensieri, fare e dire le cose giuste. Essere giusta mi rende in pace con me stessa. Quando faccio le cose sbagliate mi sento sbagliata». La sua filmografia è a quota cento. «Non ci avevo fatto caso. Bello, spero che ce ne saranno ancora cento, ma in realtà più della quantità conta il senso che le cose hanno». Dei cento, quanti hanno senso? «Tutti, anche i più sbagliati, strambi, quelli che non ho mai visto. Perché è il cammino che conta, banale ma vero. Il cammino l’ho fatto nel miglior modo che ho potuto».