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 2022  febbraio 14 Lunedì calendario

Cronache della marcia su Roma. Febbraio 1922

Come se il 1922 volesse regolare fin dall’inizio tutti i conti sospesi prima di inabissarsi nell’inferno, a febbraio la lama della ghigliottina taglia la testa di Henri Désiré Landru, condannato a morte per aver sedotto, ucciso e bruciato nel forno a legna della cucina dieci donne. Il sostituto procuratore generale Béguin lo sveglia alle 5,50 del mattino, informandolo che la domanda di grazia è stata respinta. Poi nella cella numero 3 entra il barbiere: il prigioniero ha chiesto di accorciargli la barba che continua a crescere, come se volesse sopravvivergli. Nel cortile la ghigliottina è già montata, nella semioscurità sembra altissima. Alle 6,40 l’uomo conosciuto da tutti come Barbablù rifiuta la messa, l’ultima sigaretta, il cognac e quando il cappellano del carcere di Saint-Pierre a Versailles gli mormora «coraggio» risponde che non ne ha bisogno, perché è innocente. Gli legano le mani dietro la schiena, tagliano il colletto della camicia bianca e due guardie lo sostengono per le braccia mentre sale sulla “bascule”, poi il boia Deibler lo inclina sulla curva di ferro del patibolo dove cala di colpo la “lunette” davanti a una folla di curiosi, quasi che con lui si giustiziassero tutti i delitti del mondo: anche quelli a venire. Una vera e propria mobilitazione, con interrogazioni parlamentari, manifestazioni a Genova, assemblee a Imola, cortei a Forlì, comizi a Milano, porta centinaia di persone in piazza per chiedere il rinvio di un’altra esecuzione, quella sulla sedia elettrica dei due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati ingiustamente negli Stati Uniti di aver preso parte a una rapina con due morti. I fulmini fiammeggianti sospesi nell’epoca, tutti i tuoni che si annunciano brontolando nel cielo incupito del dopoguerra sembrano pronti a scaricarsi sull’anno della tempesta, con la sua quotidianità furiosa e brutale. Mussolini cerca di dare un’organizzazione e una regola alla violenza squadrista, anche se dopo aver liberato gli istinti e incoraggiato i soprusi è difficile riassorbire il disordine, governandolo. L’illegalità armata delle squadre si trasforma in una struttura paramilitare, un vero e proprio esercito di partito che strappa allo Stato il monopolio della forza, per scatenarla in proprio contro gli avversari politici. Il fascismo, che già è nato pronto al “combattimento”, diventerà “una milizia volontaria al servizio della nazione”, basata sui tre cardini dell’ordine, della gerarchia e della disciplina. Un Comando Generale, che ha al suo vertice il Duce, nominato dalla ridondanza fascista “Primo Caporale d’onore”, guida la struttura delle squadre incolonnate con i fez, le divise e le camicie nere: al seguito delle aquile issate sulle insegne sul modello dell’antica Roma, con le centurie, le coorti, le legioni, i Principi, i Triari e i Consoli, per garantire un controllo politico di vertice su una gendarmeria parallela, dunque eversiva, con pistole, pugnali, fucili, mitragliatrici, bombe a mano e manganelli. E infatti lo squadrismo ha sempre più campo libero, e spadroneggia con le sue incursioni violente, dovunque. A Sestri Levante i fascisti distruggono la Camera del lavoro, trascinano armadi e scaffali in piazza e se ne vanno dopo aver bastonato quattro operai, a Verniana (Arezzo) picchiano un parroco e un gruppo di cattolici popolari che avevano assistito alla messa in suffragio di Papa Benedetto XV con il distintivo del partito all’occhiello, a Mirandola (Modena) sparano contro un contadino di 16 anni perché rifiuta di togliersi il fazzoletto rosso dal collo, a Pieve a Nievole (Pistoia) vanno a cercare i comunisti a casa di notte, a Livorno lanciano nella finestra di un’officina socialista due bombe “Sipe” con la miccia lunga sette secondi, a Piombino gettano il segretario del sindacato nel vuoto, dal secondo piano. Sono sicuri dell’impunità, corrono motorizzati da una città all’altra cantando e sparando, le forze dell’ordine chiamate dalle vittime arrivano in ritardo, dicono di avere pochi uomini contro i gruppi d’assalto organizzati, stanno a guardare o si ritirano, soprattutto se sono i ras locali del fascismo a guidare le spedizioni. Un rapporto dei Regi Carabinieri di Fiesco si limita a fare testimonianza delle imprese di Roberto Farinacci, il gerarca di Cremona: «Informovi che verso le 13,30 di oggi l’on. Farinacci, giunto in automobile a Fiesco col segretario del Fascio di Soresina e incontrato il contadino Tacchinardi Luigi, gli chiese conferma della sua identità e ottenuta risposta affermativa gli somministrò un potente schiaffo dicendogli: perché non vuoi stare alle dipendenze del tuo padrone?». Il governo Bonomi si decide a prendere posizione contro i corpi armati abusivi, revoca porti d’arma, impone la consegna dei moschetti, sequestra i manganelli, spedisce circolari ai questori spingendoli a uscire dalla connivenza con le squadre fasciste, chiama Cesare Mori, il futuro “prefetto di ferro”, nella zona più calda, Bologna e la Bassa padana, e autorizza lo scioglimento delle organizzazioni paramilitari. Ma lo Stato non riesce a riprendere il controllo di un Paese in mano alle bande armate e Bonomi deve dimettersi. Tentano di fare un governo De Nicola e Orlando, Giolitti dietro le quinte è pronto a tornare in gioco e invia il prefetto Lusignoli, che il Re ha nominato senatore, a smussare le resistenze del Vaticano: dove Achille Ratti, arcivescovo di Milano, è appena stato eletto Papa, e ha assunto il nome di Pio XI. Quando si alza la fumata bianca tre falchi volano sopra la basilica di San Pietro, appena prima che si apra a sorpresa la finestra dell’aula delle Beatificazioni, affacciata alla piazza: il Papa torna a benedire la folla dalla loggia esterna come non avveniva dal 1870, con tre pontefici che dopo la breccia di Porta Pia non si erano più mostrati al popolo dai sacri palazzi, benedicendo Roma e il mondo. Un’apertura inaspettata verso l’Italia, anche se il Maresciallo del conclave, principe Ludovico Chigi, annuncia che Sua Santità mantiene “tutte le riserve” in favore dei diritti inviolabili della Santa Sede, che ha giurato di difendere.
Dal Vaticano non verrà nessuna apertura politica verso la crisi italiana. In parlamento, dove i veti incrociati dei partiti bruciano via via tutti i candidati, c’è una teorica maggioranza antifascista. Ma Pio XI un anno prima, da arcivescovo, aveva benedetto i gagliardetti fascisti dentro il duomo di Milano: e adesso blocca i popolari. Un altro blocco paralizza il Psi. È la pregiudiziale anticollaborazionista che spunta ad ogni riunione del vertice socialista, impedendo al partito di entrare in gioco in un momento decisivo per il futuro del Paese, nonostante il gruppo parlamentare del partito sia più disponibile. Il Re non vedendo soluzioni il 16 febbraio rinvia Bonomi alla Camera. In aula arriva un ordine del giorno che riprende alcune proposte dei socialisti, «per restituire al Paese le condizioni indispensabili di una pacifica convivenza nel rispetto della libertà del lavoro, di organizzazione e di obbedienza alla legge» e per «mettere le classi lavoratrici in grado di assumere partecipazione e responsabilità nell’andamento dell’azienda». Sembra un canale costruito per trasportare il gruppo parlamentare del Psi verso una benevola astensione, favorendo un accordo tra democratici, popolari e socialisti che metterebbe fuori gioco il Duce e potrebbe deviare la storia d’Italia. «Tutti i partiti tagliano i ponti con il fascismo – annuncia quel mattino l’ Avanti! –, la politica italiana si orienta verso sinistra?». Ma è un’illusione che dura poco. Mussolini vuole sfuggire ad ogni costo all’isolamento e con una mossa tattica a sorpresa si infila tra i sostenitori dell’ordine del giorno, votando a favore, salvo la fiducia al governo, come i socialisti. Così in un paradosso parlamentare l’ordine del giorno passa nella parte di programma e di principio, ma il governo cade, perché non ha i voti. Mussolini si alza in aula per celebrare lo scampato pericolo: «Combinate o non combinate il ministero, fatelo o non fatelo di sinistra, questo però sia chiaro, ad evitare un pericoloso salto nel buio: non si va contro il fascismo, e non si schiaccia il fascismo». Era l’ultimo tentativo, ed era ormai troppo tardi. Le lettere angosciate e deluse di Anna Kuliscioff a Filippo Turati accompagnano e anticipano tutti i passaggi della crisi, e rivelano l’inconcludenza della sinistra nel momento decisivo. 19 gennaio: «Ma cosa volete, cosa aspettate?». 2 febbraio: «Tante questioni vi giungono tra capo e collo perché come struzzi non le avete mai affrontate. Tenevate la testa tra le piume per non vedere e non sentire». 8 febbraio: «Ci sarebbe ancora un’uscita, un governo con socialisti, popolari e democratici, ma in tal caso bisogna anche essere disposti ad andare incontro a una probabile guerra civile perché i fascisti sono forti, audaci e pieni di appetiti. È una situazione terribile, il Paese di giorno in giorno si avvicina al precipizio. Ormai non so cosa possa salvarlo». 15 febbraio: «La verità è che non avete né gran fede né profonda convinzione». 19 febbraio: «Purtroppo, come prevedevo, la vostra semiverginità parlamentare vi ha eliminato tutte le simpatie, vi ha suscitato molte ostilità e per giunta vi ha reso ridicoli. Finché non vi deciderete a scegliere la via di un appoggio diretto a un ministero, mi pare vana e ingenua la pretesa di poter influire sulla vita del Paese». Turati aveva già risposto alla sua compagna ammettendo pubblicamente la sconfitta, e soprattutto rivelando la consapevolezza socialista di aver mancato il momento magico in cui forse si poteva rovesciare il gioco politico: «Due anni fa era un altro paio di maniche, oggi non c’è più nessuno che ci voglia al potere. Abbiamo l’aria di quelle ragazze che si vantano di essere ricercate da Tizio e da Caio e a cui invece nessuno pensa, come la vecchia Perpetua del buon Manzoni. A me pare che il nostro momento sia tramontato». La crisi del Paese si ribalta dentro il Psi e le sue difficoltà a decidere una linea di resistenza al fascismo. Spunta finalmente il concetto di libertà, pressoché assente al congresso di Livorno del gennaio 1921, e oggi da difendere ad ogni costo, davanti alle minacce quotidiane: «È il culto della libertà che noi vogliamo invocare – ribadisce Turati –, la sacra, immortale libertà per cui il socialismo vivrà, e senza la quale non sarà». Ma quale libertà, «quando un nastro, un cencio, una canzone bastano per produrre incendi, eccidi, devastazioni, quando la povera gente deve fuggire dai suoi paesi, quando le amministrazioni sono disciolte con la minaccia, le rivoltelle e le bombe?». E infatti il giorno in cui si riunisce a Roma il Consiglio Nazionale del partito la sede di via del Seminario si riempie della diaspora socialista: sindaci cacciati dallo squadrismo, sindacalisti espulsi dalle città, dirigenti di cooperativa che hanno perso il lavoro dopo la distruzione delle sedi. Tutti chiedono che il partito faccia qualcosa, resista, si opponga, reagisca. «Salvateci». È l’altra faccia del 1922: la tragedia della sinistra e soprattutto del Psi, trasformato da Mussolini nel principale bersaglio della sopraffazione fascista, colpito nei suoi uomini e nelle sue strutture, sradicato dalle sue organizzazioni, senza che lo Stato impedisca questo sopruso contro la libertà politica. Il Psi è ancora un partito di agitatori che semina la sua politica nelle aie e nelle officine partendo da una Casa del Popolo, una biblioteca popolare, una Camera del lavoro: privato dei suoi organismi di base è neutralizzato, senza l’acqua in cui nuotare. «Il partito è con le spalle al muro – nota Pietro Nenni –, sta perdendo tutto, le pubbliche libertà, i mezzi di propaganda e di organizzazione. Centoventi deputati erano una grossa carta da giocare. E invece il Psi illudendosi di andare a sinistra va a destra, e fa il gioco della reazione». Ancora una volta, dunque, le divisioni interne alla sinistra annebbiano la prospettiva e frenano l’azione, nello sconforto di Nenni per «lo spettacolo unico di una classe che si dilacera proprio nel momento in cui è attaccata da un nemico spietato e implacabile». E la profezia amara di Anna Kuliscioff non lascia spazio alle speranze: «Ormai la borghesia non teme più la rivoluzione e si getterà in braccio al primo generale al potere, andremo filati a una dittatura e a una reazione mai vista in Italia». Gridano proprio «Viva la dittatura», e «Abbasso il parlamento» i giovani radunati a centinaia a Bologna il 10 febbraio, prima sotto le finestre della prefettura per protestare contro la politica romana senza governo, e poi davanti al Comando del Corpo d’Armata per acclamare i militari e spingerli a riempire il vuoto di potere. La violenza è anche questo: dileggio della democrazia, disprezzo del parlamento, invocazione della forza come strumento di governo, per far cessare «l’orgia dell’indisciplina, i miti sociali, il grigiore anonimo dell’egualitarismo», e insediare «nuove aristocrazie». «Noi – spiega Italo Balbo – abbiamo un destino solo: svalutare nel ridicolo, fino all’assurdo, lo Stato che ci governa, il regime attuale. Vogliamo distruggerlo con tutte le sue venerande istituzioni. Più scandalo nasce dalla nostra azione, più siamo contenti. Questo regime si sfascia, non resta che una collezione di statisti decrepiti: piomberemo su quel nido di gufi per fare piazza pulita». E Il Duce in persona benedice l’urlo di Bologna che chiede la dittatura contro il parlamento, «per il suo significato spirituale enorme e per il sempre più acuto senso di disgusto che l’attuale regime parlamentare provoca». È la conferma di una predicazione antidemocratica e anti-istituzionale che precede l’azione del fascismo e le apre il cammino. A otto mesi dalla marcia su Roma, siamo già fuori dallo Stato di diritto, da qualsiasi orizzonte costituzionale, addirittura dallo Statuto albertino. Mussolini infatti non intende sprecare il concetto estremo di dittatura lasciandolo passare sulla scena italiana annichilita senza impadronirsene, perché rappresenta una delle sue possibili opzioni per arrivare al potere e perché introduce nel Paese la prospettiva di una torsione finale del sistema. «Sono stato il primo a evocare la possibilità di una dittatura militare, anche se occorre andare cauti perché la dittatura è la carta suprema, con cui si risana o si piomba nel caos. Ma oggi l’eventualità di una dittatura deve essere seriamente considerata. Può anche darsi che il grido dei dimostranti fascisti di Bologna diventi domani il coro formidabile ed irresistibile dell’intera nazione». Il Capopopolo che sfida lo Stato in Parlamento e il Paese in piazza ha ripreso in mano il suo partito dopo la ribellione dello squadrismo contro la strategia della pacificazione. Ma ha pagato il prezzo della mano libera per le bande armate ormai ingovernabili, ubriache della loro stessa aggressività, decise a farla finita con gli avversari. La natura del partito si inclina tutta verso la violenza che diventa la sua espressione e la sua immagine, assorbe la sua politica. Mussolini è inquieto perché avverte il pericolo che l’elemento squadrista prevalga definitivamente sull’elemento politico del fascismo: ma deve cavalcare la piazza se vuole conservare l’autorità che ha appena riconquistato, e quindi è costretto ad inseguire il demone che lui stesso ha liberato. L’idea di mettere la democrazia con le spalle al muro galvanizza le giovani camicie nere, inebria le squadre, seduce i gerarchi. E rafforza la leadership del Capo, che sta diventando l’uomo del destino anche per i ras locali più indocili. Incomincia la raffigurazione simbolica del Duce: «Il suo corpo, non grande, riempie tutta la piccola stanza al – racconta Giuseppe Bottai –. Un che di pletorico, di straripante, di scoppiante. Una vitalità non contenuta, che imprime ai suoi gesti più semplici e ordinari, al volger del capo, al porgere della mano, al disegnare nell’aria un’idea, un’ampiezza smisurata. Vi s’avverte una mancanza di misura che insorge dal profondo, da quella zona oscura del nostro essere dove gli istinti fisiologici precipitano in atteggiamenti morali. Anche volendo, si sente, l’uomo non avrebbe potuto fare altrimenti. La persona, insomma, è già un personaggio». «Ogni quindici giorni, sono da Mussolini a Milano: incontri indimenticabili – aggiunge Italo Balbo –. Il Capo è sempre affettuosissimo, non mi lascia partire senza un abbraccio. La sua fiducia è il mio viatico. Mi dice che sono uno dei migliori. Orgoglio della lode, ambizione di sorprenderlo, facendo più di quanto si aspetta». «Quel che avviene quando Mussolini si presenta alla folla è indicibile – spiega Roberto Farinacci –, si agitano gagliardetti, fazzoletti e cappelli, un grido solo erompe da migliaia di petti prima del suo discorso, che è un vero e proprio squillo di battaglia». «Spalle larghe, sguardo volitivo». Pietro Nenni, l’antico compagno di Mussolini nelle battaglie socialiste e nella galera, lo guarda andar via sulla passeggiata della Croisette a Cannes, dove hanno camminato insieme per l’ultima volta, discutendo per ore nella notte della Conferenza internazionale che riunisce i Capi di governo delle potenze vincitrici nella prima guerra mondiale. «Egli sa che ogni giorno che passa il cerchio si restringe sempre più. Ha un profondo disprezzo per coloro che lo sostengono e sa di essere, a sua volta, disprezzato. Non ignora che è il Capo soltanto alla condizione di obbedire alle basse passioni di una classe ebbra di vendetta, che vuole lo sterminio dei socialisti. Il fondo plebeo dal quale trae l’acutezza della sua perspicacia e il suo tempismo lo avverte che si è giunti a un bivio. In quel momento non ha che un vago presentimento del trionfo che gli avvenimenti gli preparano. Forse, se potesse, ritornerebbe indietro». Ma non può.
E la moglie Rachele lo vede cambiare. Lo aveva conosciuto a 7 anni, quando lui entrò in classe a Dovia come supplente di sua madre Rosa, e le diede un colpo sulle dita col righello per zittirla mentre chiacchierava. Poi lo rivide nel 1908 con baffi, barbetta, una cravatta nera alla Lavallière e gli occhi grandi che le sembrarono addirittura fosforescenti, e la guardavano in un altro modo. La chiamava “Chiletta”, ma per fidanzarsi spianò la pistola verso la madre: «La vede, signora Guidi? Ha sei pallottole. Se Rachele continuerà a respingermi una sarà per lei e le altre cinque per me. A voi la scelta». Quando andò a prenderla a casa, per cominciare la vita insieme, fecero a piedi i 7 chilometri fino a Forlì. La casa, all’inizio, era quella di un rivoluzionario. Anche a Milano, dopo la nascita del Fascio, Mussolini nascondeva sopra un armadio tre bombe a mano e Rachele portava sempre nella borsetta una rivoltella, che ogni notte teneva pronta sotto il letto di Vittorio, in stanza coi genitori. Coi ragazzi andavano al “Gerolamo” per lo spettacolo dei burattini e al circo, al “Fossati” seguivano le operette, alla Scala Benito chiudeva spesso gli occhi nell’ombra del palco, e quell’anno alla prima del “Parsifal” dormì tutto il tempo. Ma adesso Rachele assiste a una trasformazione. Mussolini era abituato a portare scarpe di una misura più grande, per comodità, senza stringhe per infilarle in fretta: proprio a Cannes, prima di uscire dall’albergo per incontrare il Capo del governo francese, Aristide Briand, si accorge di avere le scarpe sporche e si fa comperare un paio di ghette bianche per nasconderle, e anche per imitare gli statisti riuniti per discutere il rilancio economico dell’Europa. Le indossa per mesi. Ogni giovedì ha un doppio appuntamento per pedicure e manicure, non sopporta le mani poco curate. Usa l’acqua di colonia al mattino, dopo la doccia, si rade il cranio da quando perde i capelli e capisce che le lozioni non servono a nulla, digiuna una volta alla settimana, beve solo acqua minerale dopo un’ubriacatura giovanile di cognac, in un giro di comizi e brindisi d’augurio. Pranza e cena a casa, prima in via Castelmorrone 19, poi all’ultimo piano del 38 di Foro Bonaparte, cerca di dormire raramente fuori. Ma non basta. L’abbondante vita amorosa e sessuale di Benito viene infatti a bussare direttamente a casa, e bisogna rimediare. «Non era uno stinco di santo, e io ero a conoscenza di quasi tutte le sue avventure – lo scusa la moglie –. A mio parere, lui la testa non l’ha persa mai». La rivoluzionaria russa Angelica Balabanoff; la cameriera marxista Fernanda Oss Facchinelli, che chiamerà il figlio Benito Ribelle prima di morire di tisi; la musulmana anarchica Leda Rafanelli; l’inglese Alice de Fonseca Pallottelli; la segretaria del Bianca Ceccato; la moglie di uno squadrista in galera, Angela Curti; l’austriaca Ida Dalser, che otterrà dal Duce il riconoscimento del figlio Benito Albino e non accetterà mai di essere abbandonata, presentandosi urlando in redazione e addirittura a casa, per chiedere alla piccola Edda se «papà e mamma si vogliono bene», prima di essere chiusa al manicomio di Venezia dove morirà nel 1937. Nel dicembre 1915 due questurini suonano alla porta, chiedono a Rachele se lei è la signora Mussolini e vogliono portarla al commissariato, con l’accusa di aver dato fuoco a una camera dell’albergo “Milano”. Lei riesce a dimostrare che non è mai stata in quell’albergo, si scopre che è la Dalser che si presenta ovunque come moglie del Duce, e Mussolini decide che è il momento di sposare in municipio Rachele, dopo cinque anni di convivenza. Angelica Balabanoff lavora in redazione all’Avanti! e aiuta Benito a irrobustirsi politicamente e culturalmente, indirizzandolo nelle letture e nello studio. Ma la vera costruzione intellettuale e sociale del Duce è opera di Margherita Grassini, moglie del deputato Cesare Sarfatti, una veneziana rossa di famiglia ebraica borghese, socialista da quando aveva quindici anni, intellettuale brillante, critica d’arte e animatrice di cultura. Nasce una passione molto forte, e anche un’intesa profonda, che ha il suo culmine proprio nel ’22, quando Margherita scrive a Mussolini «come tua amica, tua donna, tua sposa» e lo chiama «signore e sposo, capo e amante», chiedendo a Dio di rimanere al suo fianco «silenziosa e dissimulata nell’ombra della tua luce per ministrarti un poco di riposo, qualche dolcezza, la sicurezza di un infinito amore». Infine un invito: «Getta l’ancora nel mio porto, grande nave gloriosa, e salpa per tutti gli oceani, sicuro pur nelle procelle». Nel caos di questo clima sovreccitato e confuso, dove tutto sembra possibile e il Paese sta perdendo ogni equilibrio, la nave mussoliniana è infatti pronta a salpare, anche se il Duce è come sempre dubbioso sulla rotta da prendere, tra legalità ed eversione. Il sistema politico non trova la strada per salvare se stesso, come se non ne sentisse l’ultima urgenza. Solo i sindacati cercano di costruire una forma di opposizione organizzata alla violenza squadrista, dando vita all’“Alleanza del lavoro”, sotto la spinta dei ferrovieri. È l’unico segno di resistenza unitaria a livello nazionale contro il fascismo. Il 12 febbraio il segretario dei metallurgici Bruno Buozzi è nella tribuna semideserta del campo Sempione, a Milano, insieme con il responsabile della Camera del Lavoro Francesco Mariani e il sindaco Angelo Filippetti, quando alle 14,45 l’arbitro fischia l’inizio della partita di “calcio proletario” tra le due nazionali operaie d’Italia e Francia. Finisce 7 a 2 per la squadra italiana in maglia rossa, con una coda di polemiche, perché l’associazione operaia di educazione fisica vuole precisare in una riunione in municipio che l’aggettivo “proletario” deve essere usato «esclusivamente per manifestazioni che promanano dalle classi lavoratrici con cosciente indirizzo classista, per l’auto-elevamento materiale, morale, intellettuale o fisicoigienico». Mentre si gioca a Milano, a Roma la crisi, incapace di risolversi in un governo autorevole, scivola verso una soluzione sbiadita che conferma il declino del sistema. Dagli armadi dismessi del giolittismo il Re per guidare il governo pesca il nome di Luigi Facta, un avvocato di Pinerolo fedelissimo di Giolitti, che sembra preoccupato soltanto di far passare qualche mese in attesa del ritorno del suo leader, quando scadrà il veto dei popolari. Un gabinetto di famiglia, dicono tutti, sicuramente di passaggio. Ma verso cosa? Il governo che Facta porta all’approvazione del Re non ha traccia di quelle aperture a sinistra che si erano viste nella discussione in parlamento, anzi ribalta lo schema: entrano i popolari, soprattutto si affacciano i fascisti. «Il Paese aveva bisogno di un governo, e gli si offre un fantoccio ridicolo e grottesco, una caricatura morale e fisica dell’autorità – dice Nenni –. E un vecchio lindo, pulito, sorridente, tolto dall’oscurità nella quale si compiaceva per farne un presidente del Consiglio posticcio, con l’ottimismo di un incosciente, incaricato di tener caldo il posto a Giolitti per il momento in cui piacerà allo stregone di Dronero di ricomparire sulla scena politica». Nominato il 26 febbraio, Facta conquista alla Camera una fiducia senza fiducia col voto dei fascisti, ed è bollato per sempre da Salvemini: «Uno dei maggiori idioti di tutti i tempi e di tutti i Paesi». Ma il Re, sapeva dove stava precipitando l’Italia?