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 2022  febbraio 14 Lunedì calendario

Questione ucraina, due casi analoghi al tempo della guerra fredda

Può sembrare un paradosso. Ma Vladimir Putin sta facendo un favore a Joe Biden, il cui tasso di consenso interno era sceso al livello di quello bassissimo di Jimmy Carter. Assediando l’Ucraina, alzando ogni giorno il frastuono dei tamburi di guerra, che la Casa Bianca fa riecheggiare puntualmente in tutto il mondo amplificandoli al punto da infastidire perfino il governo di Kiev, il presidente russo ha finito per ricompattare l’Occidente, obbligando anche i “malpancisti”, come i governanti francesi e tedeschi, e i riluttanti, come quello italiano, a schierarsi per la linea dura e a seguire la leadership americana. A Biden questa postura da “guerriero della guerra fredda”, che scolora, anche se non cancella, il disastroso ritiro dall’Afghanistan, giova nei sondaggi. La sua linea sulla crisi ucraina ha un gradimento tra i democratici quasi doppio di quello riferito alla sua presidenza. Ma lo fa salire anche tra i repubblicani, specie perché ha promesso che non invierà soldati americani a morire per Kiev. E gli americani non sopportano più l’idea dei loro figli che tornano in sacchi di plastica, dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan. Mentre sul piano internazionale “America is back”, lo slogan dell’era post-trumpiana, è tornato ad avere un significato, dopo essere apparso a lungo soltanto uno slogan. Perfino l’Alleanza atlantica, di cui Emmanuel Macron aveva dichiarato la “morte cerebrale”, sembra essersi rianimata sotto la spinta della minaccia russa nel cuore dell’Europa. L’ossessione di Putin (avere la Nato alla porta di casa, cioè in Ucraina, e nel giardino, i Paesi ex satelliti del defunto Patto di Varsavia) sta diventando una tenda a ossigeno per Biden. D’altra parte questa crisi ucraina ripropone scenari da guerra fredda vecchia maniera. Ed è proprio in quel periodo che il presidente americano e il suo team diplomatico e di sicurezza si sono formati e sembrano trovarsi a loro agio, a differenza di quello che accadde a Barack Obama, silente fino ad apparire acquiescente, quando la Russia inghiottì la Crimea e aprì l’infinita crisi ucraina. Perciò può essere utile rileggere due “test match”, come si direbbe nel rugby, della guerra fredda per capire azioni e reazioni di una vicenda che tiene il mondo con il fiato sospeso, ma che appare estranea al tempo in cui viviamo. Anche perché ci sono in entrambi i casi analogie davvero impressionanti. La prima è la crisi dei missili a Cuba dell’ottobre del 1962, che ha riempito libri di storia e ispirato una sorta di docufilm, Thirteen Days, basato sui “Kennedy Tapes”, i documenti della Casa Bianca sui tredici giorni che tennero il mondo nell’incubo di un conflitto nucleare. Nikita Krusciov era convinto di avere in pugno il giovane John Kennedy, che aveva incontrato e umiliato in un bilaterale a Vienna. Invece il presidente americano e soprattutto il fratello Bob, la vera mente negoziale, finirono per piegare Mosca e alla fine Krusciov giustificò la ritirata usando la scusa che i missili, che voleva installare a Cuba, servivano a «impedire agli Stati Uniti di rovesciare il governo cubano». La chiave tattica dei Kennedy fu di anticipare le mosse dei sovietici, rendendo pubbliche le informazioni dei servizi segreti. Il New York Times ha osservato l’analogia con l’attuale crisi in Ucraina dove stiamo assistendo «al più aggressivo rilascio di informazioni dell’intelligence dai tempi della crisi dei missili a Cuba». La Casa Bianca ha reso di pubblico dominio i movimenti delle truppe russe, i piani per costruire un video di false atrocità che potrebbero servire da pretesto per un intervento, progetti di un golpe per mettere a Kiev un governo filo-russo, le stime sul possibile numero di morti e perfino presunti dubbi di alti funzionari e militari russi sulla strategia di Putin. Una tattica di guerra psicologica che, a giudicare dalle reazioni russe, ha fortemente innervosito il Cremlino. Il secondo caso da guerra fredda che presenta forti analogie con la situazione attuale è quello della Polonia nel 1980, quando le azioni di Solidarnosc, il sindacato creato da Lech Walesa, misero in crisi il debole governo di Varsavia e spinsero l’Urss di Breznev a un accerchiamento a tenaglia, proprio come la Russia di Putin oggi con l’Ucraina: 400mila soldati sovietici alla frontiera orientale tra Urss e Polonia, più alcune divisioni della Germania dell’Est e della Cecoslovacchia alla frontiera occidentale. Anche in quella occasione l’Occidente minacciò durissime sanzioni economiche per l’Urss e, nonostante i tentennamenti della Francia di Valéry Giscard d’Estaing e della Germania di Helmut Schmidt, gli Stati Uniti tennero duro finché l’Urss non rinunciò all’intervento, temendo i rischi militari (simili a quelli dell’Ucraina di oggi) e le conseguenze delle sanzioni. La storia quasi mai si ripete. Ma rileggere il passato è quasi sempre utile per capire il presente. Specie se i protagonisti sono gli stessi, anche se cambiano gli interpreti.