La Lettura, 13 febbraio 2022
Su "Nonostante tutte" di Filippo Maria Battaglia (Einaudi)
La storia di Nina, protagonista di Nonostante tutte, primo romanzo di Filippo Maria Battaglia, è la storia di molte donne. E non lo è in senso figurato, come può accadere ai personaggi letterari più riusciti, capaci di incarnare in storie individuali destini universali. Lo è perché l’autore l’ha costruita utilizzando frammenti di memorie e diari autentici. «Pochi sono gli avvenimenti che non lasciano almeno una traccia scritta», scrive Georges Perec in Specie di spazi, citato in esergo. E migliaia sono le tracce di avvenimenti che si possono trovare all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, paese in provincia di Arezzo dove, dal 1985 a oggi, sono stati depositati e catalogati circa 9 mila diari, memorie, epistolari ritrovati, spesso molti anni dopo, in soffitte o cantine. Sono testi scritti a mano, a volte sgrammaticati o con una grafia difficile da decifrare, poetici senza intenzione, come il frammento che apre questo libro: «Nacqui leggerissima. Ho giocato molto da sola, con bastoncini e rametti, o fingendo di covare le uova nella cesta dell’unica gallina che avevamo nel pollaio».
Battaglia, che al mondo femminile ha dedicato anche Stai zitta e va’ in cucina (Bollati Boringhieri), sulle discriminazioni e i pregiudizi politici nei confronti delle donne, ha iniziato 5 anni fa a immergersi nell’immenso materiale da cui ha distillato i brandelli di vita di 119 italiane che, spiega nella prefazione, «hanno attraversato il Novecento con rabbia e ostinazione, a volte con disincanto e rassegnazione». Poco più di quattrocento frammenti pieni di nomi, di luoghi, di eventi costruiscono questa storia. Provengono da tutta Italia: Nuoro, Milano, Palermo, Bolzano, dal Trevigiano e dal Monferrato, da città e da borghi dispersi. «La pagina più vecchia fa parte di un quaderno dalla copertina rigida con una foglia di vite in rilievo e la grafia elegante e ordinata appresa più di un secolo fa sui banchi di una scuola elementare di Ferrara. La più recente, invece, è condensata in cinque righe di un file pdf che si apre con una foto di Firenze e una cornice in bianco e nero».
Unendo i frammenti si è composto un «autoritratto collettivo» che da un lato sfuoca le differenze geografiche e sociali, dall’altro porta alla luce un unico intento perché scrivere, per queste donne, ha significato «portare in salvo sé stesse e la propria voce, in una lotta quasi fisica con le parole che non ha ammesso tentativi di revisione calligrafica o di correzione».
È la selezione che fa il romanzo, perché Battaglia non aggiunge e non toglie niente: uno spazio bianco tra un testo e l’altro segnala il cambio di voce, gli estratti sono riportati nella loro versione originaria, con errori, virgolette, corsivi e refusi. I testi scorrono in un uno spazio-tempo che, pur senza riferimenti di date, riesce a dire molto di quegli anni: «Sono ancora io che scrivo dopo aver riletto con le lagrime agli occhi le ultime pagine di questo quaderno. Mi sono accorta che non ho messo alcune date. Forse è meglio così: vivere senza tempo. È tardi. Qualcosa però posso ancora fare. Scrivo la mia storia. Scrivo perché si faccia qualcosa. Non so se è poco o tanto. È il mio atto d’amore» recita il frammento finale.
Il romanzo è collettivo ma le voci che parlano hanno nomi e luoghi. L’autore le inanella tutte, in ordine alfabetico, alla fine, dalla prima (Maria Alemanno Venezia, 1900, Oggi mi è saltato in mente di scrivere un diario) all’ultima (Giulia Zito, Napoli, 1969, Il principe e il gufo memoria). Scorrere quell’elenco (40 estratti provengono da cartoline, lettere, memorie, diari e telegrammi di 21 voci anonime o di cui si conosce solo il nome), è un po’ come maneggiare un campione sociologico del Novecento. In controluce, dietro le storie delle donne, ci sono le storie degli uomini: padri, mariti, datori di lavoro. Ci sono strade e stanze ( «La notte nel silenzio si sente il galoppo dei grossi topi che escono dal lavatoio»), c’è il rapporto con la religione in un Paese ancora profondamente cattolico («Quando ero piccola, Dio era tremendo, onnipotente e in ogni luogo: dal suo sguardo non avevo scampo, come quando si sta dentro una tempesta») e i grandi eventi sociali («Ho assistito alla Tv al funerale di Pio XII. È stato uno spettacolo commovente, suggestivo, grandioso»). Ma anche riflessioni e filosofie minime: «Ora non voglio fare la solita retorica dei bambini di una volta che giocavano con poco ed erano felici: io non ero felice di per sé, anzi non lo ero affatto in quegli anni, ma la vita ha il sopravvento su tutto e la tensione ad essere felici prevale su qualsiasi dispiacere o disagio».
Nina, protagonista collettiva, assiste in famiglia alle trasformazioni del lavoro, dei comportamenti e anche dell’immaginario: «Papà fu assunto in ditta. Se ci ripenso ora, mio padre era un po’ un’anticipazione di Fantozzi. Sempre ligio ai superiori, sempre prono ai potenti, andava in chiesa, alla messa delle 11.00, solo perché così lo vedeva il suo superiore. Non so cosa votasse, mio padre, era ovviamente contrario agli scioperi e andava al lavoro alle 5.00 per evitare i picchetti». C’è l’arrivo della lavatrice («I primi lavaggi li fece mio padre che all’inizio trascorreva tutto il tempo del lavaggio in bagno, a controllare come procedesse il bucato), il giubbox, la Fiat 600 in cui stipare tutta la famiglia e i bagagli e affrontare l’attraversamento della penisola con i finestrini aperti.
I primi amori arrivano insieme ai primi lavori (« La vita di mezzo però, quella stagione bella dei venti anni, nonostante le traversie confesso che l’ho vissuta a pieno, testarda l’ho cercata in ogni cosa perfino nella rinuncia che sempre mi ha camminato accanto»). Nina, che non vede l’ora di essere maggiorenne per andare a votare, vuole raffinarsi e non parlare più con forme dialettali ma con «un italiano perfettamente decente», indugia sotto il portone con un ragazzo mentre arriva il padre a pretendere le presentazioni ufficiali. «C’era anche un contesto sociale restrittivo: io lottavo quotidianamente per avere piccolissime libertà come prendere un pullman di pomeriggio e andare a ballare, persino per frequentare delle amiche che non erano “viste bene” semplicemente perché avevano rotto con il fidanzato».
La lotta per l’emancipazione emerge accanto alla visione patriarcale che vuole la donna solo madre e sposa: «Ebbi la fortuna di conoscere molte donne che si recavano in fabbrica. Con loro spesso iniziai a parlare di emancipazione e di parità fra i sessi». L’amore (e il non amore), il matrimonio, la maternità, le aspettative sociali e il bisogno di fare di testa propria: la selezione di frammenti mette sul tavolo tutte le carte, anche le più pericolose, come la gioia e la fatica di essere madre, il rapporto con i figli, il buio della depressione («Mi manca il desiderio di vivere»), i farmaci, e poi la vecchiaia, il corpo come «un cimitero di cicatrici».
Questa donna (queste donne) dice tutto con parole sue, senza censure né omissioni. È figlia, madre, nonna, sa cambiare prospettiva, passare dal «non posso più» all’«ora posso questo». La sua è una testimonianza ma anche una lezione senza cattedra.