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 2022  febbraio 13 Domenica calendario

Intervista con Monica Mariani, autrice tv, che ha appena perso la figlia

(L’Arena, 13 febbraio 2022)
 
 
di STEFANO LORENZETTO
 
Che Monica Mariani sia una scrittrice di notevole talento lo si capiva aprendo la pagina 18 dell’«Arena» dello scorso 20 gennaio, quella delle necrologie, la prima delle quali recitava così: «Lunedì 17 gennaio la nostra Teresa ha cambiato forma, il suo spirito è tornato al disegno di amore infinito a cui appartiene». Un commiato che ciascuno vorrebbe per sé.
La signora Monica è la mamma di «Teresa Alliney di anni 15». Quando Sara Coloni, delle onoranze funebri L’Altro Cielo, le ha chiesto il testo da far pubblicare sul giornale per annunciare la morte della figlia, ha avuto un attimo di smarrimento: travolta da una tragedia più grande di lei, non ci aveva proprio pensato. «Tutto ti piomba addosso, non ero preparata», quasi si scusa. Ma subito ha prevalso il suo consumato mestiere, coniugato a un senso militare del dovere. Si è appartata per un minuto, ha scritto, ha consegnato, mentre il marito Alberto, a pochi passi da lei, affrontava ben più penose incombenze: il tipo di bara, il cuscino, la scelta del cimitero, la forma di sepoltura.
Questo fa di professione Monica Mariani, scrivere, e dev’essere stata una fatica immane dal 2014 fino a un mese fa, mentre vedeva l’ultimogenita perdere giorno dopo giorno la sfida contro un male inesorabile, dover continuare a sfornare sceneggiature per Rai e Mediaset. Nel suo curriculum ce ne sono parecchie di grande successo: da «La squadra» a «Diritto di difesa», da «Terapia d’urgenza» a «Distretto di polizia», da «Agrodolce» a «Il peccato e la vergogna». Per la conferenza stampa di «Sottocasa» aveva al suo fianco Lucio Dalla, autore della sigla. Ma ha perso il conto delle soap opera in cui ha messo le mani, a cominciare dalla più longeva, «Un posto al sole», partita nel 1996, che domani toccherà le 5.881 puntate. Anche nelle ore in cui la sua Teresa veniva ricomposta per l’ultimo viaggio, su Rai 1 andava in onda, come accade ogni pomeriggio alle 15.55 dal lunedì al venerdì, la sua fiction più nota, già arrivata alla sesta stagione, «Il paradiso delle signore». Cosicché giovedì prossimo, giorno del trigesimo, verrà trasmesso l’episodio 649 senza che alla mamma di Teresa sia ben chiaro – uno strazio aggiuntivo – se esista anche un paradiso delle ragazzine, in cui un giorno potrà riabbracciare il frutto di quel disegno d’amore celebrato nel necrologio.
Monica Mariani è nata nel 1967 a Porto San Giorgio, sul mare delle Marche. Il padre Attilio era un impiegato del ministero del Tesoro. Lo ha perso nel 2014. Nel 1997 era mancata la madre Wanda. Le resta il fratello maggiore, odontoiatra. La scrittrice ha convissuto dal 1995 con Alberto Alliney, ascendenze savoiarde, funzionario di Unicredit che si occupa di marketing strategico. Si sono sposati nel 2000. Dal 2008 abitano in città, a Veronetta. Alla coppia restano due figli: Giovanni, 26 anni, microbiologo, e Nicola, 23, che sta completando la laurea in agraria a Wageningen, nei Paesi Bassi, la stessa città in cui il fratello lavorava fino a qualche giorno fa. «Si è licenziato perché da febbraio voleva tornare a vivere a Verona per stare vicino alla sorellina. Lei era legatissima a entrambi, tanto che il suo pupazzo preferito era Stitch, il simbolo dell’unità familiare».
Un gesto di generosità degno di un capo scout.
Milita tuttora nel Corpo nazionale giovani esploratori, credo abbia il grado di rover, si dice così? Nicola è stato lupetto. Teresa avrebbe desiderato diventare coccinella, ma dopo alcuni incontri ha dovuto rinunciare a causa della malattia.
Com’è approdata alla Rai?
Arrotondavo stando dietro al bancone del bar in un circolo di artisti indipendenti a Roma. Facevo i cocktail. Avevo scritto una commedia. La consegnai a Michele Zatta, dirigente di Rai Fiction. Gli piacque e mi propose un test di ammissione. Fui inserita nello staff di «Un posto al sole», sul quale ho anche pubblicato un libro. Poi sono diventata editor: rivedevo i dialoghi scritti da altri. Continuo come sceneggiatrice e soggettista, devo ideare i filoni delle varie stagioni di una serie.
Nata per la scrittura.
In realtà amavo il diritto. Mi vedevo direttore di carcere. Infatti mi laureai in legge alla Sapienza di Roma. Ero incinta di Teresa quando, da sola, andavo a fare volontariato a Rebibbia. Mi è capitato di passare con i detenuti, alcuni condannati per vari omicidi, il mio compleanno e anche le feste di Natale. Quelli che uscivano in permesso talvolta venivano a prendere il caffè a casa mia. Gli insegnavo la scrittura, un esercizio terapeutico.
Suo marito che diceva?
Era orgoglioso di me. Ci siamo conosciuti alla Caritas di Roma. Andavamo sulla Casilina a portare panini, latte caldo e coperte ai baraccati.
Le è capitato di scrivere fiction su bambini malati?
In «Terapia d’urgenza» c’era un piccolo di 10 anni che moriva per una malformazione cardiaca, mi pare. Ma ho sempre rispettato certi paletti.
E quali sarebbero?
Evitare le derive sadiche, lasciare sempre la speranza. Certo, mentre Teresa era malata, avrei rifiutato di scrivere una fiction a sfondo sanitario.
Come scopriste che vostra figlia non stava bene?
Per caso. Nell’estate del 2014 le comparve un bozzo nel popliteo, la regione posteriore del ginocchio sinistro. Pensavamo a una banale cisti, ma il radiologo Matteo De Iorio constatò che era vascolarizzata e ci indirizzò subito all’oncologia dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, il meglio che c’è, per casi del genere.
La diagnosi quale fu?
Rabdomiosarcoma, un tumore maligno dei tessuti molli. Teresa fu ricoverata, sottoposta a chemioterapia, poi all’intervento chirurgico. Quindi un altro ciclo di chemio, seguito da radioterapia. Pareva che fosse andato tutto bene.
Invece?
Dopo pochi mesi, una ricaduta. Il male si manifestò nei linfonodi inguinali. Le vennero asportati. Altri sei cicli di chemio e ancora radioterapia. Per un anno ebbe una tregua.
Teresa sapeva?
Aveva 8 anni, la verità le fu somministrata per gradi. Durante le chemio stava malissimo, smetteva di mangiare. Le cure divennero più tollerabili e riprese ad alimentarsi soltanto dopo che le fu prescritta la cannabis terapeutica, sotto forma di resina in capsule.
Perse i capelli?
Quattro volte. E ogni volta reagiva con la stessa frase: «Non facciamone una tragedia». Scriva questo di lei, perché è ciò che meglio definisce nostra figlia. Per l’intero corso della malattia ha preteso che né noi genitori, né i fratelli, né i parenti, né gli amici si preoccupassero. Se lei lo fosse, preoccupata, non ce l’ha mai fatto capire.
Ho letto che era la mascotte dell’Associazione bambino emopatico oncologico.
La chiamarono a inaugurare la nuova sede dell’Abeo in via Mameli con il sindaco Federico Sboarina. Sono molto amica di una collega romanziera, vicinissima a Jovanotti, il quale ha una figlia di nome Teresa che è guarita da un linfoma. È stata una mia dialoghista. Eravamo entrambe in gravidanza quando ci siamo conosciute. Lei è volontaria all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, in oncologia. Ci faceva giungere da lì i farmaci sperimentali per la nostra Teresa. L’ha messa in contatto con il cantautore. Jovanotti ha voluto incontrarci dietro le quinte del suo concerto in Arena.
Qual è la vostra parrocchia?
San Paolo, in linea teorica. Dico così perché nessuno della famiglia l’ha mai frequentata, nonostante fino ai 17 anni sia stata educatrice dell’Azione cattolica.
A quell’età che cos’è accaduto?
La crisi, come per tanti. Ma la componente laica del messaggio cristiano, che considero rivoluzionario, è rimasta viva in me e ancor più in mio marito. È l’aspetto trascendente che non mi convince, anche se continuo a pensare che la spiritualità sia una dimensione importante dell’uomo. Mi manca la fede nell’aldilà. Eppure negli ultimi anni ho avuto un’ampia interlocuzione con il divino. A volte mi chiedo: che ci perdi a pregare? Una cosa posso dirla: credo fortemente che questo eventuale Dio sia pieno di amore e non vada tanto per il sottile quando una mamma gli si rivolge nel bisogno. Non penso che se la prenda per il mio scetticismo.
Non mi pare atea: crede senza saperlo.
Può darsi. Ho simpatia per gli atei, meno per quelli militanti. Sono atea malgré moi, vorrei non esserlo. Considero la Chiesa insostituibile. Non vedo nel mondo laico nessun’altra realtà che la possa rimpiazzare.
Dov’è adesso Teresa?
Mah... Potrei dire: nel cuore. Ma è una risposta insufficiente. Anche gli altri figli stanno lì.
E quindi?
Sarebbe impressionante se avessi già una risposta a questa domanda. Non fingerò che sia così. Essendo mancata da meno di un mese, mi pare più corretto affermare che non lo so. La sto cercando. Ti alzi dal letto la mattina e subito la cerchi. Mi auguro solo che, ovunque si trovi, sia in grado di percepire questo: che la sto cercando. La cerco con il naso, con gli orecchi, con gli occhi, con tutti i sensi, con la memoria. La cerco nella sua camera, la cerco al cimitero. Teresa è nel grande vuoto che lei non vuole rendere inutile, questo lo abbiamo avuto sempre ben chiaro. Nell’oblazione totale di un dolore che ti annulla, c’è un conforto che deriva da una forza preesistente, da un fuoco che lei ha acceso mentre era ancora in vita.
Quale fuoco?
Aver vissuto la sua malattia come noi l’abbiamo vissuta non può lasciare altro esito che comportarsi bene nel pezzo di strada ancora mancante prima di ricongiungerci a lei, se è destino che un giorno ci si debba riunire.
Come faceva a scrivere le trame di molti sceneggiati leggeri mentre era alle prese con questo dramma?
Ho scritto anche «L’estate delle Veneri», che è ancora più leggero, romanzo ispirato al «Paradiso delle signore». Scrivevo dialoghi leggeri anche mentre stava morendo mia madre. Se c’è un luogo comune consolidato nel mio mondo, è «the show must go on», lo spettacolo deve continuare. Una dannazione e al tempo stesso una salvezza.
A Teresa piacevano le sue fiction?
Mmh. (Oscilla la testa a destra e a sinistra). È difficile che la tv generalista interessi ai giovani. Ma quando li acchiappa, li acchiappa parecchio. Teresa andava pazza per «Che Dio ci aiuti», la serie con suor Angela, interpretata da Elena Sofia Ricci. Purtroppo non l’ho scritta io.
Durante le terapie stringeva amicizia con altri piccoli pazienti?
Sì, soprattutto con Marta. Si guardano, si capiscono al volo. Condividono sentimenti a noi ignoti. È un mondo loro. Sono amicizie su un piano diverso dal nostro, che si consumano anche in una mattinata trascorsa al day hospital per la chemio. E in domande del genere: «Tu che cancro hai?».
Quando avete capito che le cure non funzionavano più?
Nonostante sapessimo che non sarebbe finita bene, sino all’ultimo abbiamo coltivato l’ottimismo della volontà. La speranza era di dare a Teresa più tempo, in attesa di qualche miracolo scientifico, propiziato da un nuovo farmaco, o di un miracolo vero.
Sua figlia ha sofferto molto?
Fino al maggio scorso è stata asintomatica. Poi le metastasi polmonari hanno cominciato a procurarle un affanno crescente. Per un anno ha dovuto mettere un cerotto con la morfina che la faceva respirare meglio. L’ultima crisi l’ha avuta nella notte del 16 gennaio, all’ospedale della Donna e del Bambino di Borgo Trento. Era cosciente. Le ho dato un po’ di succo di frutta e si è appisolata. Il resto è irraccontabile.
Avevate mai parlato del «dopo»?
No, mai. Ricordo una sola domanda diretta, anni fa: «Ma di questa malattia si muore?». Elaborava un pensiero collaterale, l’ho capito leggendo i suoi temi. Ma non verbalizzava la paura del distacco.
«Teresa ha vissuto con un’intensità che noi non riusciamo neppure a sfiorare, sapendo che la sua vita poteva essere breve e che dunque era importante ogni ora di ogni giorno», ha sottolineato durante il funerale il parroco del Duomo, don Luigi Cottarelli. L’aveva conosciuta?
Solo attraverso il nostro racconto. Volevamo salutarla nel migliore dei modi. Ci è parso che la chiesa madre di tutte le altre chiese di Verona fosse il luogo più adatto per dirle addio.
Chi è stata la persona più vicina a Teresa nella malattia?
In termini di tempo, io. Ma quello più capace di sintonizzarsi sui suoi bisogni è stato il padre.
Che adesso in quale modo reagisce?
Come me: ogni tanto piange. Facciamo a turno. Ognuno c’è per l’altro, sembriamo due... due... (Non trova le parole).
In che cosa cercate conforto?
Nel sostegno reciproco: ci amiamo molto. Nei nostri figli. Nell’affetto degli amici. Nella famiglia di Alberto. In mio fratello. Nei nostri nipoti. Nel rivederla sorridere in qualche filmato. Nel ripensarla mentre, appena entrata nel Duomo di Milano, attraversa la navata e corre d’istinto verso la cassetta delle elemosine a mettere i suoi spiccioli. Nell’andare a trovarla al Monumentale. Soprattutto ci fa tanto, tanto bene quando ci parlano di lei e di quanto fosse forte, saggia e divertente. Perché lei era davvero così.
Congedandosi da Teresa durante le esequie, lei si è rammaricata per non aver potuto esibire un fermacapelli dal fiocco rosa che sua figlia portava da bambina. È poi saltato fuori?
Non ancora. Lo sto cercando. È in giro da qualche parte.
Avrebbe desiderato porglielo in testa nella bara?
No. È che, nel mio mestiere, una cosa detta ha un significato, una cosa vista ne ha un altro. Volevo solo mostrare qualcosa di Teresa agli amici radunati in chiesa.
Vedrà che lo ritroverà.
Ne sono sicura.
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