La Lettura, 13 febbraio 2022
Le pagelle di Macbeth
Benché, come ogni altro suo, il racconto di Hemingway da Franco Moretti citato nel suo Falso movimento (nottetempo), sia all’apparenza perfettamente leggibile, non suscettibile di una eventuale interpretazione, la decadenza delle ermeneutiche tradizionali consente (è la proposta di Moretti) di accedere, attraverso una lettura quantitativa, a un altro significato, a colpo d’occhio impercepibile. Nel caso di Hemingway determinante è la somma delle frasi preposizionali.
Altrove può esserlo la type-token ratio, la varietà di parole diverse contenute in un testo: quale e dove la massima ricchezza linguistica o la minore? Perché l’una contrapposta all’altra? Perché rispetto ai romanzi popolari del suo tempo Adam Bede di George Eliot si rivela portatore di ulteriore significato? È possibile anzi probabile, che un’analisi quantitativa invece che qualitativa sarebbe legittima anche per un film, o un testo teatrale – lo si legge sempre in Falso movimento, dove tre strabilianti grafici consentirebbero letture inedite di un testo come Macbeth.
Ma noi, non in grado di affrontare simili analisi, ci accontenteremo di letture qualitative, tradizionali: in questo caso mettendo in serie cinque interpretazioni (filmiche) dello stesso testo (drammaturgico): appunto Macbeth. Così saremo di fronte neppure a un singolo testo, a un testo in sé, come è nato, ma a commenti di quel dramma, del resto altrettanto autosufficienti. Così, continuando un discorso recente, partito dalla rilettura di Nicola Chiaromonte come critico teatrale: discorso sulla possibile alterità di testi e interpretazione di essi, quasi fossimo di fronte a un testo e a un controtesto.
Nel caso di una tragedia del XVII secolo la questione è ancora più radicale. Il testo non ci interessa più, o ci interessa relativamente: lo diamo per scontato. Ci interessa il controtesto. Cosa hanno fatto di Macbeth e di Shakespeare, Orson Welles, Akira Kurosawa, Roman Polanski, Justin Kurzel e Joel Coen?
Il tradimento iniziale, quello di Welles, è d’esempio e vale, in parte, come indice per i successivi. A metà tra le lodi, sebbene con riserva, di André Bazin (ma sembrano un partito preso) e l’ironia beffarda di Ennio Flaiano negli extra del dvd, non già in Lettere d’amore al cinema, una lettura al dettaglio è quella di James Naremore. Vi sono rese indiscutibili le verità del film, quelle buone e quelle meno buone. Ho usato la parola «tradimento». È consustanziale al lavoro di un regista, è un dato di fatto, una necessità implicita nel suo lavoro. Ma nel caso del film che si chiama Macbeth del 1948 solo ipotizzare la verità di un punto di partenza è un arduo compito.
Quello di Orson Welles nasce da una situazione esistenziale che lo accomuna a Roman Polanski. Tutti e due erano in difficoltà: l’estro artistico del regista polacco sembrava non più brillante come in precedenza e da qualche anno non faceva film a causa della strage di Bel Air, durante la quale fu uccisa la moglie incinta Sharon Tate. Welles, dopo il fallimento finanziario de La signora di Shanghai, era stato bandito da Hollywood. La sua risposta fu un film sull’orrore. L’orrore di vivere? Non proprio: l’orrore dell’ambizione.
Tuttavia, è proprio l’ambizione a rendere Macbeth, tra i suoi, uno dei film meno riusciti. La stessa durata, ottantadue minuti, ne è un indice eloquente: ogni taglio alle vicende del dramma va addebitato alla concentrazione su un protagonista che si va isolando. Welles è sempre in primo piano, il viso è ghignante, quasi deforme: l’eroe di Shakespeare diventa una specie di autoritratto per rabbia, alla rovescia. Da un punto di vista stilistico, difficile negare la natura espressionista del film. Fin dall’inizio non estranea a Welles, la matrice tedesca degli anni Trenta non è minimamente mascherata. Ma decisiva nel film non è solo la sua continua presenza in primo piano (dov’è Lady Macbeth, Jeannette Nolan?). Lo è anche la scelta di retrocedere nel tempo, fino a un’età preistorica, in cui le streghe sono sacerdotesse druidiche, l’ambiente fisico indeterminato: si pensa a Stonehenge.
Ogni paesaggio è montuoso, roccioso, inavvicinabile: tutto è pura cartapesta, dunque poco credibile. Osserva James Naremore: «La figura di Macbeth è quasi quella di un nuovo Kong di dimensioni ridotte (Joseph McBride aveva parlato di una memoria di King Kong): un essere dalla barba ispida, avvolto in pelli di animale, spesso fotografato dal basso col grandangolare».
Per un altro critico inglese, Raymond Durgnat, l’espressionismo che ne consegue è caratterizzato da «pesantezza, simbolismo, interazioni ossessive», insomma abbandono di ogni possibile squarcio naturalistico. Si esce dalla visione del film stremati.
Si esce stremati anche dal Macbeth di Akira Kurosawa, che nell’originale si intitola Il castello della ragnatela e in Italia è conosciuto come Il trono di sangue. Sono arrivato a pensare che se si ama questa tragedia di Shakespeare la si arriva ad amare di un perverso amore. Il film è del 1957. Kurosawa disse: «L’epoca delle nostre guerre civili è simile a quella descritta da Shakespeare, al punto che anche da noi è esistito un personaggio come Macbeth; non mi è stato quindi difficile trasporre il dramma in ambiente giapponese; ho girato il film come se fosse una storia giapponese del XVI secolo».
Ma nella realtà Kurosawa va oltre. L’azione del film è concentrata in tre ambienti: il Forte Nord, il Castello, la Foresta. I dialoghi e i monologhi sono spesso sostituiti da azioni. La voce narrativa, fuori campo, che usò Welles e più tardi avrebbe usato Polanski, viene eliminata. I dati ricorrenti sono i primi piani di Toshiro Mifune (che però non è il regista!); le corse dei cavalli, quindi le cavalcate; la pioggia quasi costante; la nebbia che avvolge le azioni, in cui esse si disperdono, così perdendo consistenza; il predominio della Natura sulla storia e sulla cosiddetta Storia – cui il regista fa riferimento. Cruciale che le tre streghe siano sostituite da una sola figura femminile, noi diremmo una Parca.
Memorabile la scena dell’assassinio del Signore del Castello da parte del protagonista Washizu: naturalmente non si vede, è fuori scena, ciò che vediamo è l’immobile figura, impassibile, di Asaji, la moglie di Washizu: una sequenza lunghissima, tra le più belle nella storia del cinema. La Parca e Asaji (Isuzu Yamada) ci dicono da sé sole chi è Macbeth, quanto valore ha l’ambizione di Washizu, che razza di debole uomo egli sia – in trappola dal primo minuto.
Ricordavo il Macbeth di Polanski (uscito nel 1972) come effettivamente è: non è cambiato. È, nei difetti e nei pregi, diviso in due. Per un verso, un procedimento narrativo lineare, moderato, come fosse quello di una storia normale e non di una simile tragedia; per un altro, prossimo a un film horror.
Ricordo benissimo quando uscì. Ricorreva la certezza che il risultato fosse effetto di come Polanski non poteva dimenticare la morte di sua moglie.
È probabile che sia anche così e, un poco, lo conferma il regista nella sua autobiografia. Scrisse la sceneggiatura con Kenneth Tynan, il maggiore critico inglese di teatro e allora direttore del National Theatre. Fecero due scelte significative: «Macbeth e sua moglie sarebbero stati giovani e di bell’aspetto (Jon Finch e Francesca Annis), al contrario di quanto avviene per lo più sulle scene, dove sono, senza alcuna necessità, personaggi di mezza età, gravati dal peso del destino e che, invece, per dirla con Tynan, non sanno di essere coinvolti in una tragedia, ma persuasi di essere alla vigilia del trionfo predetto dalle streghe».
L’altra scelta è di non nascondere: «All’epoca di Shakespeare sarebbe stato impossibile rappresentare l’assassinio di un monarca, ed è per questa ragione che quello di Duncan avviene tra le quinte, laddove Tynan e io ritenevamo essenziale esibire sullo schermo questo episodio». Perché lo ritennero essenziale? Perché così doveva essere. La stessa ragione per cui assistiamo ad altre scene quasi truculente: appunto l’assassinio del re, la strage della famiglia di Macduff, l’attentato a Banquo, il duello conclusivo tra Macbeth e Macduff, la stessa prima sequenza: le streghe che seppelliscono una mano appena tagliata e, più tardi, la discesa agli inferi, nell’antro delle streghe, in cui il colore rosa opaco dei vecchi corpi contrasta con il rosso sangue sparso lungo l’intero film.
Welles era americano, Kurosawa giapponese, Polanski è polacco, Justin Kurzel, che ha girato il suo Macbeth nel 2015, è australiano. Viene da lontano, è vicino nel tempo: ne sono protagonisti due autentici divi, Marion Cotillard e Michael Fassbender. È così vicino da scaturire dal mondo dei serial: in contrapposizione ai serial ma ad essi analogo. Lo rivela la prima scena, una lunga sequenza di battaglia non lontana da quanto vediamo in The Last Duel di Ridley Scott.
Si tratta, da un punto di vista produttivo, di un film ambizioso: ma i suoi campi lunghi, su terreni desolati e spiagge solitarie, c’erano già nei Macbeth precedenti. L’assassinio di Duncan reso visibile lo abbiamo appena citato parlando di Polanski. Il rosso (nei tramonti e negli stessi interni) nell’unico altro Macbeth non in bianco e nero: anche questo lo abbiamo ricordato per Polanski. I primi piani tenebrosi sono un’esclusiva di Welles e Kurosawa, sarebbe stato meglio evitarli. Mostrare avvenimenti che nel dramma sono solo detti (la fuga di Fleance, il figlio di Banquo) risultano un effetto automatico: «aria del tempo». E ancora aria del tempo è il basso continuo – non so come realizzato, con quali strumenti, di certo elettronici. Perfino Marion Cotillard è qui alla prova meno incisiva della sua brillante carriera.
Esatto rovescio del film di Kurzel eppure ad esso pari nella grandiosità delle intenzioni è The Tragedy of Macbeth di Joel Coen. Nato sotto la spinta della moglie Frances McDormand, è stato accolto con entusiasmo quasi indiscriminato: i due fratelli Coen si sono per la prima volta separati e Joel ha realizzato un «capolavoro». Un capolavoro perché e in che senso?
Dubito che Kurzel avesse intenzione di offrire un film artistico, voleva solo fare un buon film con i molti mezzi che aveva a disposizione. Al contrario, Joel Coen altra ambizione non aveva che filmare un’«opera d’arte» che restasse nella storia del cinema. Un fine che si sarebbe realizzato nei modi più spudorati, più vistosi, più indelicati che si possano immaginare.
Americano come Welles, se Welles ha scaraventato Macbeth direttamente nell’inferno, Coen lo ha perdonato e lo ha comunque posto in paradiso. A differenza che negli altri film tratti dall’opera di Shakespeare, qui Lady Macbeth è quasi sempre in scena: del resto lo stesso Franco Moretti, in una delle sue riflessioni grafiche, mostra come sia lei il personaggio che dispone di più parole. È lei a condurre il gioco, lei ha testa (mentre Macbeth, ossia un trasfigurato Denzel Washington, è un uomo senza cervello, un vero uomo d’arme, come ogni altro personaggio china sempre gli occhi a terra), lei ha cuore (moglie e marito si abbracciano, potrebbero perfino amarsi), lei è travolta da ira, disperazione, follia: un personaggio nel pieno delle sue forze umane. Ecco perché, precedendolo, accompagnerà in paradiso il valoroso marito, colui che eseguì alla perfezione i compiti da lei assegnatigli.
Con tutto il film, nella sua autocelebrazione, ci andranno tuttavia in solitudine, ognuno per conto suo, sia loro due che i loro antagonisti – le vittime: il re Duncan, Banquo, i figli e la moglie di Macduff; e poi i vendicatori: Macduff e Malcolm, il sopravvissuto figlio del re (Donalbain è quasi una comparsa).
Nel film non ci sono eserciti, non ci sono battaglie, non ci sono masse. Tutta l’azione si svolge lungo i corridoi di un castello che somiglia a un grande palazzo vuoto, ipotizzato da Giorgio de Chirico nel secolo scorso. Corridoi, angoli – all’opposto che negli ardenti colori di Polanski e Kurzel, dove l’ombra è ombra – le ombre danno luce alla luce: geometria e calligrafia. Nel Macbeth di Shakespeare, dal momento che siamo in Scozia la nebbia non manca, non manca in nessuno dei tre film in bianco e nero. Ma nel film di Coen ve ne è una quantità: i personaggi sempre (sottolineo sempre) entrano ed escono da una nebbia: l’ornamento, o meglio il geroglifico, più misterioso di cui un regista possa disporre. Non è in una nebbia, qualsiasi paradiso si riesca a immaginare?