La Lettura, 13 febbraio 2022
Storia dello Stato sociale in Italia
Non è un caso che Chiara Giorgi e Ilaria Pavan abbiano deciso di aprire il libro Storia dello Stato sociale in Italia (il Mulino) con un riferimento all’attuale crisi pandemica. Sebbene una giusta distanza dagli eventi sia essenziale alla ricostruzione storica, è innegabile che la pressione degli ultimi due anni abbia fatto emergere contraddizioni e difficoltà. Sebbene questo sia dovuto a fenomeni strutturali e transnazionali (invecchiamento degli abitanti, nuove tipologie sociali, delegittimazione dell’intervento pubblico, pauperizzazione dello Stato), il caso italiano porta anche il segno di ritardi e mancanze che trovano una spiegazione nel lungo periodo. È a tale bisogno che il volume di Giorgi e Pavan risponde in sei capitoli.
A cominciare dalla Grande guerra, che si conferma come il battesimo di fuoco della modernità. Soltanto le inedite dimensioni del conflitto forzarono la mentalità liberale, riassunta nell’opinione di Luigi Einaudi che ancora nel 1915 considerava l’impegno dello Stato in campo assistenziale alla stregua di «un collettivismo mortificatore delle più belle ed originali energie individuali». Gli anni a cavallo del 1918 videro invece dispiegarsi una volontà riformatrice che, nata dalla volontà di risarcire la nazione per i sacrifici patiti, iniziò a configurare una rottura dei vecchi schemi sia per la presa in carico di categorie sociali trascurate (il «volgo disperso» delle campagne ritratto da Adriano Prosperi), sia per la precoce spinta verso una copertura universalistica in materia di disoccupazione, infortuni, malattia e pensioni. Eppure, già allora emergevano vizi duri a eclissarsi: la resistenza delle classi padronali alla contribuzione, quella delle organizzazioni caritatevoli religiose a ritrarsi dalla sanità, la frammentazione organizzativa dell’apparato statale.
Esperimenti e problemi che l’Italia liberale avrebbe trasmesso al Ventennio, rispetto al quale il volume compie un’opera meritoria di pulizia di luoghi comuni. Ben poco innovatore, il fascismo fu «regime della menzogna» soprattutto in campo sociale, poiché soltanto la macchina propagandistica riuscì a dissimulare la natura strumentale dei provvedimenti assistenziali rispetto alla cancellazione dei diritti politici, al controllo sociale, alla perpetuazione della struttura economica, al rafforzamento del sistema clientelistico e particolaristico.
Il perdurare di quest’ultimo avrebbe ritardato drammaticamente nell’epoca repubblicana una riflessione organica paragonabile a quella occorsa in Gran Bretagna attorno al «Piano Beveridge». Pur introducendo innegabili miglioramenti, quindi, l’opera riformatrice degli anni Cinquanta sarebbe rimasta frammentaria, emergenziale, timorosa di incidere sulle posizioni acquisite. Soltanto il primo centrosinistra avrebbe prodotto un salto qualitativo in termini di espansione dell’intervento pubblico; ciò nonostante, il percorso accidentato della nuova coalizione di governo si sarebbe tradotto nella progressiva perdita di vista del quadro complessivo, nel grave ritardo in settori essenziali come il Servizio sanitario nazionale (istituito solo nel 1978) e nella riproduzione di logiche di lottizzazione e di scambio politico sfociate nella costosa stasi degli anni Ottanta.
Lo Stato sociale italiano arrivò così ancora incompiuto, diseguale e già obsoleto alle sfide di fine millennio poste da una società in profondo mutamento, ma anche dalla «globalizzazione» e dalle sue crisi, e da un processo d’integrazione europea incapace di coniugare i vincoli economici con la costruzione e la promozione di un welfare continentale. Le politiche italiane, segnate da un tendenziale impoverimento delle tutele e dell’assistenza, non sono andate oltre la tradizionale risposta frammentaria alle urgenze. Quanto alla possibilità che l’attuale emergenza sanitaria offra l’occasione di una reale riforma sistemica e migliorativa, il lungo periodo così ben delineato da Giorgi e Pavan non lascia grandi margini di ottimismo.