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 2022  febbraio 12 Sabato calendario

Biografia di Giorgio Montefoschi raccontata da lui stesso

Alla fine della nostra conversazione Giorgio Montefoschi ha il dubbio di aver detto un cumulo di sciocchezze.
Si schernisce così, questo signore che sembra nutrire un orrore particolare per il mondo esterno che lo assedia.
Forse per questo ha deciso, anni fa, di vivere in una sorta di fortino circondato da orti, ai confini della Roma urbana. Ogni tanto, dice, si avventura nella città lungo il Tevere a passeggiare di sera tardi. Gli serve per quella dose di adrenalina mentale che lo risvegli, lo scuota, lo liberi da qualcosa che lo tormenta. Il nostro colloquio, devo ammettere, comincia in modo strano. Ho letto il suo nuovo romanzo, Dell’anima non mi importa (La nave di Teseo) e come molti romanzi di Montefoschi parla di una coppia agiata e in crisi in una Roma borghese dove tutto alla fine si ricompone sotto una luce opaca. Sto per chiedergli perché giunto al diciannovesimo romanzo non ha perso la voglia di stare dentro il suo francobollo sociale e invece vengo attratto da un esergo di Origene.
Sembra quasi una stravaganza la citazione iniziale nel tuo libro di un padre della Chiesa del II secolo.
«È l’avvio di un commento a un Salmo e l’ho messo perché riguarda la resurrezione della carne, un tema che mi ossessiona e al quale accenno nel romanzo».
Ti ossessiona da quando?
«Fin da adolescente, quando ho cominciato a rendermi conto che si poteva morire. Uno dei capisaldi della fede cristiana è che Dio si incarna, muore e poi risorge. Ma sebbene io sia un cattolico praticante questa fede non la possiedo. Mi tormenta la sua mancanza. Al punto da avere un pessimo rapporto con la morte: con la mia, e anche con quella delle persone che amo. Non ho mai visto un morto, neppure mia madre che ho assistito a lungo nella sua fase finale. Ecco, vorrei che fosse quaggiù la vita eterna e non in un ipotetico altrove».
Magari è così. Magari scopri che le nostre vite ci bastano.
«Non è semplice. Anni fa girai un film su come si vive in un monastero benedettino. Trovai il luogo nei pressi di Gubbio. C’erano in tutto sei monaci e un priore scorbutico e intelligente. Mi fece visitare gli spazi, le celle dove pregavano e dormivano e a un certo punto gli chiesi: come pensa che risorgeremo, con un corpo o in quale forma? Mi guardò come se per lui la risposta fosse scontata. È semplice, disse: risorgeremo come persone, perché l’identità della persona è il dono più grande che Dio ha fatto all’uomo».
Tu pensi che in un altrove ricomporremo qualcosa che la nostra contemporaneità ha mandato per lo più in frantumi?
«Non lo penso io, lo pensava il priore. Ho intitolato il mio romanzo Dell’anima non mi importa. Per lungo tempo il cristianesimo ha ritenuto che spettasse all’anima fornire un’identità. Poi si è assegnata una centralità al corpo. Ora nel romanzo parlo di tradimenti, di amori che si frantumano e si ricompongono. E so che non si può scrivere di queste cose senza considerare la presenza o l’assenza di Dio».
Che cosa cambia?
«Cambia la profondità e la sofferenza con cui, almeno io, scrivo. Cambiano le aspettative. È diverso poter pensare se c’è o non c’è Dio quando non ci sarò più»
Forse basterebbe immaginare che esista per trasgredirne la presenza.
«È per questo che il cattolicesimo ha imposto il pentimento come forma di salvezza».
Tu dove cerchi la “salvezza”?
«Una delle strade possibili è la scrittura. Intendiamoci non è l’unica. Ma per me è fondamentale».
Scrivi in quali momenti?
«Lavoro la mattina. Sono come un impiegato. Mi siedo al tavolo con la mia penna stilografica e il foglio bianco. E sto lì in attesa che qualcosa venga».
Alberto Moravia faceva la stessa cosa.
«Capivo perfettamente il suo modo di lavorare. È un mestiere dove occorrono disciplina, orari, concentrazione».
Basta per fare lo scrittore?
«Dieci per cento di ispirazione, il resto è tecnica. A volte grande tecnica».
Quando finisci di lavorare e ti alzi dal tuo tavolo che fai?
«Sono un abitudinario. Gioco a tennis. Oppure passeggio, inoltrandomi dentro una Roma che riconosco sempre meno».
Quale Roma ti manca?
«Quella dei miei vent’anni. Ora ne ho quasi settantasei. Mezzo secolo fa i miei referenti erano Volponi, Parise, Arbasino, Moravia, Campanile. Gente che ho frequentato e da cui ho appreso qualcosa. Oggi sono un animaletto in via di estinzione».
Roma è lo sfondo di tutti i tuoi romanzi.
«È la città che conosco meglio».
Quella che privilegi è la parte ricca.
«Ogni scrittore alla fine è prigioniero del proprio mondo. Io racconto la parte che conosco. Pietro Citati mi diceva: per carità, Montefoschi, non si allontani da piazza Ungheria!».
È la piazza da cui si origina la salita verso i Parioli e poi c’è Roma Nord. Mi chiedevo, a proposito del lato nero e violento di questa zona, se non ti è mai venuta voglia di raccontarla.
«Non potrei mascherarmi da sociologo esperto in giovani o da operaio immerso con i suoi problemi alla catena di montaggio o dentro un’azienda che delocalizza. Ciò che scrivo suonerebbe falso. Sono come quei pittori che per tutta la vita lavorano alle stesse forme. Chardin faceva soprattutto nature morte, Corot paesaggi, Morandi bottiglie. Erano per questo meno intensi?».
C’è ancora la borghesia che ti ostini a raccontare?
«È meno bigotta e ipocrita, più fragile. Ma c’è ancora, ed è cambiata in meglio. La racconto provando a spostare di volta in volta l’angolazione».
In questo “Dell’anima non mi importa” l’angolazione, più che il tradimento, è la morte e il mistero che l’avvolge.
«Quello che cercavo di dirti prima».
C’è anche la descrizione rapida del quartiere Aventino. Una zona che con le sue chiese e i suoi canti gregoriani sembra a volte un distillato di spiritualità.
«Tu sai che ci ha vissuto a lungo Cristina Campo».
In quell’albergo di Sant’Anselmo nel quale sistemi uno dei personaggi del romanzo.
«È un omaggio segreto a una donna che sapeva accostarsi alla spiritualità. A proposito di donne, mi fai venire in mente un incontro di tantissimi anni fa, proprio all’Aventino».
Con chi?
«Con Elsa Morante. Era un personaggio difficile, prepotente, bizzarro. Ma dotato di un fascino assoluto. La vidi in una notte gelida di Natale prima che si ammalasse. Era insieme a Paolo Terni. Voleva andare ad ascoltare il canto gregoriano nella chiesa di Sant’Anselmo.
Camminava appoggiandosi a un bastone, con l’inconfondibile fazzolettone in testa. Ci salutammo. Poi, con mia moglie Lucia, ci spostammo a San Pietro. E lì rincontrai Elsa. Fu sorpresa. E disse con la sua voce squillante: ma allora c’è un angelo che guida i nostri passi. Sono state le ultime sue parole che ho ascoltato. Credeva nell’esistenza degli angeli».
Cosa pensi dei suoi romanzi?
«È una grande scrittrice: Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo sono straordinari. La Storia mi è parso diseguale. Si abbassa nelle parti politiche, mentre vola in quelle più oniriche. Penso che sia il libro della maternità mancata. Nel piccolo Useppe, Elsa ha immaginato il figlio che non ha mai avuto».
Nei tuoi romanzi fai un uso abbastanza indicativo della grande letteratura. Improvvisamente compaiono romanzi e autori che non ci aspetteremmo.
«Li inserisco come fossero dei segnali stradali. Quasi a voler dire ai miei lettori: in questo momento sono da quelle parti».
C’è un romanzo che hai letto e che avresti voluto scrivere?
«Il mio sogno sarebbe stato di scrivere Il quartetto d’Alessandria di Lawrence Durrell. Un romanzo pazzesco, ma per scriverlo avrei dovuto essere diverso da come sono».
Come sei?
«Di una normalità esemplare».
E questo ti obbliga a “dipingere” la stessa cosa.
«È un gesto che si ripete da 19 romanzi».
Qualcuno potrebbe esclamare “che palle!”.
«Lo hanno detto. Altri per scherno hanno aggiunto: ma nei romanzi di Montefoschi non lavora mai nessuno?».
Cosa risponderesti?
«Che la sola strada possibile è quella che ho sempre percorso. Intendiamoci bene, sono uno che ha viaggiato tanto, fermandomi anche a lungo: Inghilterra, Israele, Grecia, India. E per vent’anni ho lavorato a Mixer. La mattina scrivevo a casa e il pomeriggio ero alla redazione della Rai. Ma erano due cose diverse. Non sono la stessa persona quando scrivo e quando viaggio. Ti confesso anche una cosa: soffro della totale mancanza di immaginazione. Non potrei mai costruire trame fantasiose o visionarie».
In fondo l’immaginazione è la più terrificante delle facoltà umane che i sogni possono realizzare. Tu sogni?
«Perfino nei sogni manco di immaginazione. Da qualche anno, per esempio, sogno sempre mia madre che mi rifiuta, non mi vuole. Eppure l’ho adorata e ci siamo scambiati l’affetto più bello. Anche mio padre, che era un uomo debole e timoroso, ricorre in un sogno: si è fatto un’amante e scopro attraverso il suo sguardo quello che non ho mai visto nella sua vita: la sicurezza e la felicità».
Hai provato a farti psicanalizzare?
«Se lo facessi sarebbe finita. Se tutto fosse in ordine che ne sarebbe della mia scrittura?».
Perché scrivi?
«Questa domanda mi fa venire in mente la risposta di Calvino: perché voglio scrivere un libro migliore del precedente. In realtà scrivo per diradare il buio che mi circonda, nell’ansia di voler illuminare qualcosa».
Funziona come risposta?
«Sento l’appagamento di ciò che ho scritto e un minuto dopo la assoluta precarietà».
Mi hai detto che giochi a tennis?
«Sì».
Non trovi che non ci sia nessuna differenza tra scrivere e giocare a tennis?
«No, no. Io sto male quando scrivo mentre durante una partita di tennis avverto una grande gioia. Come scrittore non provo nessuna soddisfazione prolungata. Ho sempre vissuto con il senso del fallimento. Mi viene in mente L’airone di Giorgio Bassani, un romanzo bellissimo e terribile. Lui invece pensava che fosse brutto. La figlia cercava di consolarlo: ma che dici, papà? E lui insisteva: no, no è una vera schifezza».
Non si rischia di essere troppo esigenti con se stessi?
«Ho una spiegazione meno autolesionistica. Secondo me è l’inesauribile che incombe e non arriva mai a conclusione».
Che vuoi dire?
«A volte lo scrittore si rende conto che quel che ha fatto, pur nella disperata ricerca delle parole, è ben poca cosa. È l’inadeguato. Elsa Morante diceva che bisogna scrivere solo i libri che cambiano il mondo. Temo che si fosse convinta che i suoi lo avrebbero cambiato».
È una prova di narcisismo. In che misura lo sei?
»Non è un tratto che mi appartiene. Tendo a vedere in me soprattutto i limiti e i difetti. Ma senza piangermi addosso. Anche perché la mia vita è stata molto ricca e molto bella anche se disseminata di dolori: una madre con l’Alzheimer, un tumore allo stomaco contro cui ho dovuto reagire e altre storie che ti risparmio».
L’introspezione aiuta ad essere uno scrittore migliore?
«Non mi piace psicoanalizzarmi. Preferisco sviluppare l’attenzione per le piccole cose. I miei dialoghi devono rispondere a questa esigenza. Al ritmo delle piccole cose. Proust attraverso la scrittura voleva appropriarsi di tutto il mondo: un paralume, I fiori, Un biscotto, Gli alberi, Una voce, Una veduta. Tutto per lui era degno di trasformarsi in scrittura. Tutto ai suoi occhi si può amare perché ogni cosa fa parte del creato. È la sua religiosità segreta a dirci che tutto quello che esiste merita di essere raccontato».