Robinson, 12 febbraio 2022
Elogio di Arancia meccanica (firmato Martin Amis)
Il tran tran quotidiano di chi sta scrivendo un romanzo sembra spesso ridursi a una serie di decisioni da prendere, nient’altro che questo: decisioni, decisioni, decisioni. Quel paragrafo sta bene qui? Meglio spostarlo lì? Quel lungo spiegone può essere stemperato da un dialogo? In quale momento devo rivelare quell’informazione? In quella frase è il caso di usare un aggettivo diverso e un avverbio diverso? Oppure via l’aggettivo e via anche l’avverbio? Virgola o punto e virgola? Due punti o trattino? E così via.
Sono piccole decisioni, ovviamente, e vengono prese più o meno razionalmente dalla mente conscia. Tutte le decisioni più importanti, al contrario, vengono prese prima di sedersi alla scrivania; e non richiedono nemmeno un momento di riflessione. Le decisioni più importanti riguardano il primo brivido: quel sussulto o bisbiglio che ti sprona ( un bisbiglio che dice: Qui c’è un romanzo che forse saresti in grado di scrivere).
Alquanto misteriosamente è quindi la mente inconscia a sbrigare il lavoro pesante. Nessuno sa come accada. Ecco perché Norman Mailer ha intitolato il suo ( eccellente) libro sulla narrativa L’arte inquietante.
Nel 1960, quando Anthony Burgess ha cominciato a scrivere Arancia meccanica, possiamo stare sicuri che avesse una manciata di certezze riguardo a ciò che lo attendeva. Sapeva che il romanzo sarebbe stato ambientato nel futuro prossimo ( e che avrebbe imboccato la strada classica della science- fiction,dando sviluppo e magari esagerando ferocemente le tendenze dell’epoca). Sapeva che il suo crudele antieroe, Alex, sarebbe stato il narratore, e che avrebbe raccontato la storia usando un gergo o idioletto che il mondo non aveva mai sentito prima ( alla fine optò per una mescolanza infallibilmente deliziosa di russo, romaní e slang giovanile). Sapeva che avrebbe avuto qualcosa a che fare con il Bene e il Male, e quindi con il Libero Arbitrio. E sapeva, ed era fondamentale, che Alex avrebbe coltivato una passione altamente inverosimile: un amore assoluto per la musica classica.
Cogliamo appieno la grandezza spiazzante di quest’ultima decisione quando ci ricongiungiamo, mezzo secolo dopo, con il giovane sociopatico dileggiante, deridente, sogghignante, frignante di Burgess ( un tipetto incomparabilmente incarnato da Malcolm McDowell nel film discontinuo ma non a torto celebrato di Stanley Kubrick). «Non sono stato io, fratello», si lagna Alex con l’assistente sociale ( che è accorso in prigione). «Glielo dica lei, signore, che io non sono mica così cattivo».
Ma Alex è cattivo, e lo sa. I capitoli iniziali di Arancia meccanica ci scioccano ancora per la loro modernità: formano un rivolo rosso di malefica allegria.
Nella loro prima serata in giro per la città Alex e i suoi drughi ( ossia complici) avvicinano un preside, gli strappano i libri che ha con sé, lo denudano e gli fracassano a pedate la dentiera; derubano un bottegaio massacrando lui e la moglie ( «una bella mazzuolata con il piede di porco» ); prendono a calci un barbone ubriaco ( «E così gliene abbiamo date una delizia» ), e si azzuffano con una banda rivale, facendo uso di coltelli, catene e rasoi: «Qua si faceva sul serio, qua non si scherzava affatto: altro che stivalate e ciocchi, qui toccava ricorrere a nozzo, uzzina, britto (…) e saltellavo di qua e di là con il mio britto come se fossi un barbiere a bordo di una nave sul mare in tempesta».
Poi rubano una macchina ( «zigzagando dietro ai gatti» ), aggrediscono en passant una coppia che amoreggia, irrompono nel cottage di «un ganzo libresco tipo intelligentone come quello che avevamo marachellato qualche ora prima», distruggono il manoscritto di un’opera che sta scrivendo, e commettono uno stupro di gruppo sulla moglie: «Poi è sceso tipo il silenzio e tipo ci sentivamo pieni d’odio, quindi abbiamo spaccato quel che restava da spaccare – la macchina da scrivere, la lampada, le sedie – e Tonto, classico del vecchio Tonto, ha innaffiato il caminetto e stava per cacare sul tappeto, dove c’erano tutti i fogli, ma gli ho detto di no. ? Via via via via, ? ho gridato. Il ciallovo scrittore e la sua zinna, tutti insanguinati e spappolati e gemebondi, non erano più lì per davvero. Ma sarebbero sopravvissuti».
E tutto questo succede entro la fine del secondo capitolo. Prima che la prima parte abbia termine con Alex in una sburreria che puzza di «vomito e latrina e brotte [ bocche] birrose e disinfettante», il nostro «Umile Narratore» droga e violenta due ragazzine di dieci anni, ferisce Tonto con il suo britto e deruba e uccide una vecchia zitella: (…) ma la babuccia (…) tipo mi ha graffiato la lizza [ faccia]. Allora ho scricciato: ? Vecchia sumaca [ donna] schifosa, ? e mi sono rialzato con in braccio la malenchina [ piccola] statua d’argento e le ho dato una sana cioccata [ botta] sul gulliver [ testa] e questo le ha fatto chiudere il becco veramente incresciò [ alla grande], una delizia».
Nel breve intervallo tra queste due esplosioni di «ultraviolenza» ( che coprono la prima e la seconda giornata del romanzo), Alex torna a casa, nei Casermoni Municipali 18A. E lì, tanto per cambiare, si diletta a tenere svegli i genitori mettendo a palla lo stereo multi- casse che ha in camera. Prima ascolta un nuovo concerto per violino, poi passa a Mozart e Bach.
Burgess evoca le sensazioni di Alex in un paragrafo virtuosistico che deve meno al nadsat, ossia al gergo giovanilistico, e più alle modulazioni dell’Ulisse: «I tromboni hanno scricchiolato rossastri e dorati sotto il letto, e dietro al mio gulliver le trombe hanno fiammeggiato argentate per tre volte, e lì accanto alla porta i timpani mi hanno sbudellato le viscere per crepitare nuovamente come un tuono di zucchero. Ah, meraviglia delle meraviglie. E poi, un uccello tipo tra i piú rari ha vorticato metalceleste, o come un vino argenteo sospeso in un’astronave, la gravità non aveva più il minimo senso, ed è arrivato il violino solista sopra tutti gli altri archi, e gli archi sono diventati come una gabbia di seta intorno al letto».
Qui sentiamo la potenza di quel primo sussulto o sussurro: l’insistenza autoriale che la Bestia sarebbe stata suscettibile alla Bellezza. Con qualche pennellata, senza sentimentalismo, Alex è messo a fuoco in modo decisivo. Adesso gli è stata fornita un’anima, e perfino una possibile innocenza, un’ombra confermata dall’abile chiusa nelle ultime righe della prima parte: «Ecco tutto. L’avevo fatta grossa. E c’avevo solo quindici anni».
Verso la fine degli anni Cinquanta, quando Arancia meccanica era solo un luccichio nell’occhio dell’autore, i quotidiani non facevano che lamentare tediosamente l’aumento della delinquenza di massa, mentre i teddy boys figli del dopoguerra si diversificavano, moltiplicandosi, tra mods e rockers ( che più avanti sarebbero diventati hippy e skinhead). Intanto le riviste letterarie erano più angustiate dalle svariate scosse di assestamento della Seconda guerra mondiale, soprattutto dalla coesistenza apparentemente sconvolgente, nel Terzo Reich, di barbarie industrializzata e Cultura Alta. È un dibattito in cui il romanzo si tuffa baldanzosamente.
Sdraiato nudo a letto, elettrizzato da Mozart e Bach, Alex ricorda con fervore i successi ottenuti poco prima, lo scrittore picchiato a sangue e la moglie stuprata: «(…) e ho pensato, mentre slusciavo [ ascoltavo] la severa beltà dello stardo [ vecchio] maestro tedesco, che avrei voluto cioccare entrambi molto più forte e farli a pezzi lì sul loro bel pavimento».
In questo modo Burgess butta lì la sinistra ma non inverosimile idea che Beethoven e Birkenau non si limitassero a coesistere. Che anzi si combinassero e complottassero, ispirando sogni folli di supremazia e onnipotenza.
Nella seconda parte, la violenza non arriva più dal basso, ma dall’alto: è la violenza «pulita» e mirata dello Stato. Dopo aver passato due anni in prigione, l’incorreggibile Alex è selezionato per la Cura Recuperativa ( sfruttando la tecnica «Ludovico» ). Questa si scopre essere un corso accelerato in terapia repulsiva. Ogni mattina gli viene iniettato un forte emetico e Alex viene sospinto in carrozzina fino a una sala proiezioni, dove la testa gli viene stretta in una morsa e gli occhi tenuti spalancati a forza, quindi le luci si spengono.
All’inizio Alex è costretto a guardare scene familiari di casino ricreazionale ( malciacchi che cioccano, devocce che scricciano e roba del genere). Quindi si passa a mutilazioni prolungate, torture giapponesi ( «videavi perfino un gulliver che veniva fatto a fette a colpi di spada da un soldato» ) e infine un cinegiornale con le aquile e le svastiche, i plotoni di esecuzione, i cadaveri nudi ammassati. La colonna sonora dell’ultimo filmato è la Quinta di Beethoven. «Bracciardi grassosi [ bastardi di merda]», bisbiglia Alex quando è finita: «? Usare Ludwig van in quel modo. Non ha fatto del male a nessuno, lui. Beethoven ha scritto solo della musica ?. Ma la nausea era troppo forte e hanno dovuto portare lì una bacinella tipo a forma di rene. (…) ? Non ci si può fare niente, ? ha detto il dottor Branom. ? Ogni uomo uccide ciò che ama, come ha detto il poeta- galeotto. Forse è questo l’elemento punitivo. Il Direttore ne sarà contento».
Da quel momento in poi Alex prova un’intensa nausea, non solo quando pensa alla violenza, ma anche quando ascolta Ludwig van e gli altri maestri stardi. La sua anima, nella sua essenza, è stata estirpata.
A questo punto ci imbarchiamo nelle curiose giustificazioni della terza parte. «Niente di strampalato avrà lunga vita» ha detto il dottor Johnson, per dire che l’appetito di stranezze del lettore viene appagato molto in fretta. Burgess ( a differenza, per dire, di Kafka) è sensibile a questa legge quasi del tutto infallibile, ma forse è ammissibile dire che Arancia meccanica avrebbe dovuto essere ancora più corto delle sue 185 pagine. A dirla tutta, è stato perfino pubblicato con due finali diversi. L’edizione americana omette l’ultimo capitolo ( è la versione usata da Kubrick) e si chiude con Alex che torna in sé dopo quello che si rivela essere un tentativo di suicidio catartico. Sta ascoltando la Nona di Beethoven: «Quando è arrivata allo Scherzo mi sono videato chiarissimo che correvo e correvo su tipo ginoga [ piedi] molto leggere e misteriose, a sfregiare l’intera lizza del mondo scricciante con il mio britto tagliagole. E ancora dovevano arrivare il movimento lento e il meraviglioso ultimo movimento cantato. Ero guarito eccome».
Questo è il finale «cupo». Nella versione ufficiale, però, ad Alex viene accordata una redenzione totale. Semplicemente, e pateticamente, cresce e supera gli atavismi della giovinezza, e non vede l’ora di sposarsi e sistemarsi; i suoi gusti musicali si rivolgono a «quelli che chiamano Lieder, solo volossa [ voce] e pianoforte, molto tranquilli e tipo nostalgici»; e porta sempre con sé una foto, ritagliata dal giornale, di un bambino paffuto: «un bambino che gorgogliava gu gu gu». Quindi ci viene chiesto di accettare che Alex sia diventato una mammoletta con smanie di paternità: all’età di diciotto anni.
Sembra una sconvolgente perdita di coraggio da parte di Burgess o la recrudescenza ( ricordiamoci che era un cattolico agostiniano) di un flagellante senso di colpa religioso. Inorridito dalla propria stessa energia trasgressiva, il romanzo si sottomette alla Cura Recuperativa a cui lo sottopone il suo autore. Burgess sapeva che qualcosa non andava: «un’opera troppo didattica per essere artistica», si era lasciato scappare, «l’arte pura trascinata nell’arena del moralismo». E non avrebbe dovuto farsi tante remore: Alex sarà anche un adolescente, ma i lettori sono adulti e sono perfettamente a loro agio con gli impenitenti. E poi Arancia meccanica è in sostanza una commedia nera. Davanti al male, la commedia non nutre alcun bisogno di punire e correggere. Risponde con una risata corrosiva.
Nel suo libro su Joyce, Joysprick ( 1973), Burgess opera una distinzione provocatoria tra quelli che chiama i romanzieri «di tipo A» e i romanzieri «di tipo B» : il romanziere di tipo A è interessato alla trama, ai personaggi, all’introspezione psicologica, mentre il romanziere di tipo B è interessato, soprattutto, a giocare con le parole. Il romanzo di tipo B più famoso è Finnegans Wake, che Nabokov descrisse efficacemente come «un libro simile a un pudding freddo, come qualcuno che russa nella stanza accanto» e lo stesso si può dire di Ada o ardore, di gran lunga la più vicina al tipo B delle sue diciannove opere narrative. Ad ogni modo il romanzo di tipo B, come genere, è ormai del tutto defunto, e forse Arancia meccanica è l’unico sopravvissuto sul lungo termine. È un libro che si può ancora leggere con un piacere assoluto, un divertimento incessante, e – a tratti – con ammirazione incredula. Anthony Burgess, quindi, non è «un romanziere di tipo B di quelli minori», come amava descriversi: è l’unico romanziere di tipo B rimasto. Penso che a lui non sarebbe dispiaciuto.
Copyright © Martin Amis. All rights reserved Traduzione di Marco Rossari