Specchio, 13 febbraio 2022
Biografia di Zeno Colò
«Facevo così», spiega molti anni dopo, quando già un’ombra brutta gli è scesa sui polmoni e il cronometro sta per fermarsi. «Tiravo fino all’ultimo, buttavo il mozzicone di sigaretta e partivo».
Fa così anche il 16 febbraio del 1952, Zeno Colò, il figlio del boscaiolo dell’Abetone, nato per diventare lo sci prima di Thoeni e Tomba, prima della valanga azzurra e di quella rosa, prima che lo sci fosse davvero lo sci che conosciamo, settimane bianche e skypass, il passatempo di massa di un mondo nuovo.
Il 16 febbraio è il giorno della discesa libera alle Olimpiadi di Oslo e Zeno guarda per l’ultima volta la pista che, stavolta, ha studiato molto bene. In gigante il giorno prima è arrivato quarto, medaglia di legno per decimi, dietro il padrone di casa Stein Eriksen e i due austriaci Cristian Pravda e Toni Spiess. «La pista era pericolosa, non ne ho tenuto conto», ha spiegato, secco come sempre. Nella memoria gli cuoce ancora il ricordo dei Giochi di St.Moritz, quattro anni prima: 14° in slalom, fuori in discesa, la sua gara preferita.
Durante la notte ha nevicato, il freddo ghiaccia le vene e glassa appena la pista con un velo di cristallo. Bisogna accarezzare le curve nel bosco di Norefjell, 140 chilometri a nord ovest della capitale, poi tuffarsi sull’arrivo, attraversando una trappola bianca di dossi e cunette. Colò ha il pettorale numero 5, butta la sigaretta e scende con calcolata incoscienza. Sul traguardo è primo in 2’30"8, cinque secondi meglio del norvegese Hjeltnes, leader provvisorio. «Non si poteva andare più forte di così», sibila. Ha ragione. Schneider e Pravda, gli austriaci, finiscono secondo e terzo, staccati di un secondo. Il francese Oreiller, campione olimpico in carica, appena 14° a 11 secondi, Eriksen sesto. È il primo oro vinto da un italiano ai Giochi invernali. Tre giorni dopo Zeno finisce di nuovo a un soffio dal podio, quarto anche in slalom. Nel 1950, quando ha raccolto due ori e un argento ai Mondiali, la Gazzetta dello Sport lo ha incoronato: «Il più grande campione di tutti i tempi conquista all’Italia un secondo titolo mondiale». Adesso, con l’oro olimpico al collo, nessuno può negarlo. C’è già stato molto, nella vita di Zeno Colò, e molto ci sarà anche dopo. Ma mai così tanto.
Zeno è nato a Cutigliano, frazione dell’Abetone piantata sull’Appennino, in provincia di Pistoia, il 20 giugno del 1920. Papà Alfredo fa il boscaiolo. Taglia e leviga due pezzi di legno anche per il figlio che deve spostarsi in fretta, non per battere il cronometro ma per seguire i bisogni svelti di una terra dura, dove si commercia in carbone e ghiaccio, in legno e miseria e l’unico squarcio di futuro sono le stazioni sciistiche, impiantate a inizio secolo su una neve difficile, che svezza al pericolo. Quando scoppia la guerra Zeno non ha neanche vent’anni, ma è già stempiato, la fronte larga come una radura appena fuori dal bosco, il naso che gli scende ripido sul volto lungo, gli occhi lampeggianti, i denti come si può. Alle Olimpiadi del ’41, che a Cortina ammettono solo i Paesi dell’Asse e qualche neutrale – tanto che poi non verranno riconosciute dalla Fis – gli fanno fare solo da apripista anche se ha già vinto tre titoli italiani. Lo cronometrano lo stesso, scoprendo che sarebbe salito sul podio con un tempo che valeva l’argento.
La Guerra gli frattura la carriera peggio che a Gino Bartali, di sei anni più vecchio, toscano come lui ma di pianura. Sotto i bombardamenti si gareggia comunque, nel ’42 Zeno vince il Trofeo Funivie del Cervino davanti a Umberto Contrini, detto «Galina». Per allenarsi scala lo Stelvio in bicicletta tre volte alla settimana. L’8 settembre del 1943 è a Cervinia, arruolato nel «Nucleo Pattuglie sci veloci». Il suo tenente, Massimo Gaggioli, non vuole arrendersi ai tedeschi, ma nemmeno mettersi in proprio contro gli ex alleati rischiando la pelle: «Una soluzione ci sarebbe, se vi fidate».
Zeno e altri lo seguono oltre il confine svizzero, si consegnano e finiscono nel campo di internamento di Visp. A traslocarlo a Mürren, settimane dopo, è Hugo de Rain, nobile ungherese che lo prende sotto la sua protezione. Nell’Oberland si organizzano gare di guerra e per non rischiare di farsi beccare dalla Gestapo i rifugiati italiani corrono, e vincono, con uno pseudonimo. Roberto Lacedelli è «Smeterlink», Silvio Alverà «Donner», tuono. Zeno sceglie «Blitz», lampo.
È un fulmine anche a guerra finita, nel 1947, quando l’Italia viene riammessa alle competizioni. A Mürren c’è il Kandahar, il trofeo più ambito, e Zeno, che nel ’45 è riuscito a tornare all’Abetone e si è rimesso a fare il taglialegna, conosce la pista come il pacchetto di Nazionali che tiene sempre nella giacca. De Gasperi, presidente del consiglio di un Paese distrutto, a gennaio è volato negli Usa con il cappello teso, riempiendolo con un prestito di cento milioni. Colò, che ha già trionfato al Lauberhorn, a marzo svernicia svizzeri, francesi, austriaci che si credevano imbattibili. A maggio si prende anche il record del chilometro lanciato: a Cervina corre con i capelli al vento, piegato quasi ad uovo, in una posizione inventata da lui che altri perfezioneranno. Volando su due strisce di legno della Cambi, migliora il primato di Leo Gamberl, allenatore della nazionale italiana, portandolo a 159.292 all’ora.
La sua fama ormai è mondiale. Dopo il flop di St.Moritz, dove in discesa cade perché i nuovi occhiali a maschera che vuole sperimentare gli fanno lacrimare gli occhi, arriva il trionfo di Aspen. La pista è difficile, Zeno al solito un lampo, stella insieme alla compaesana Celina Seghi di una squadra azzurra tanto sparuta – sono in cinque – quanto vincente. Non è un miracolo di eleganza, ma a cavallo del decennio è sicuramente il più forte di tutti in discesa, temibile nelle altre specialità. In suo onore in Colorado nasce il ristorante Abetone, lo celebra persino il New York Times: «Ci si aspettava che il tagliaboschi trentenne scendesse dalla montagna con il suo solito stile spericolato e spettacolare, ma questa volta l’Italiano è stato il ritratto della grazia». Conosce Gary Cooper, firma autografi. La sua fibra grezza, scontrosa ma non sgarbata, alla Nuvolari, si scioglie un po’. Non troppo. «Mi vedrete al cinematografo», scrive alla moglie Laura. «Spero che anche voi siate felici e abbiate festeggiato le mie vittorie come ho fatto io: con una buona bevuta».
Negli Usa gareggia ancora e le sue vittorie accendono la luce sull’Abetone, i concittadini ringraziano regalandogli una 500. Nel 1951 Alberto Ascari, che studia da campione del mondo di F.1, vince il Rally del Sestriere, a un passo dalle piste dove Colò s’intasca per la seconda volta il Kandahar. Sogna già i trionfi di Oslo, ma non sa che dopo le Olimpiadi norvegesi cominceranno le salite. La colpa è dell’ipocrisia dello sport finto-amatoriale, che ha già umiliato decenni prima Dorando Pietri, Jim Thorpe e Paavo Nurmi, che impedirà per decenni di gareggiare negli Slam a Pancho Gonzalez e Ken Rosewall. La Nordica e la Colmar, per vendere meglio giacche e scarponi, in cambio di tre milioni di lire usano il suo nome; la Fisi indignata lo mette al bando per «professionismo». Ai Mondiali di Åre, nel 1954, lo invitano, ma solo come apripista, e di nuovo il suo tempo sarebbe stato da podio. Nel 1956 la delusione più amara, perché la pugnalata arriva in casa. L’Italia organizza i Giochi invernali a Cortina e corre per quelli estivi del ’60 a Roma, per pulirsi la coscienza il Coni e la Fisi sacrificano l’ultimo sogno del vecio che a 36 anni è ancora competitivo. Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi lo nomina Cavaliere del Lavoro, ma niente da fare: dalle Tofane il campione scende solo con la fiaccola olimpica in mano da consegnare agli ultimi tedofori. La riabilitazione arriverà, ma a tempo ampiamente scaduto.
Chiuso con l’agonismo, Zeno si trasforma in insegnante, disegna piste, dirige la Scuola nazionale di Sci, dividendosi fra l’Abetone, Courmayeur, Madesimo. Ha avuto tre figli, non si è arricchito. La diagnosi di tumore al polmone – maledette Nazionali – nel 1987 lo coglie in difficoltà. Le cure costano caro, a soccorrerlo è la Legge Bacchelli, la dignità se la porta da casa. «Malato sì, perché non posso lavorare come un tempo, ma parlare di miseria mi sembra esagerato», dichiara a La Stampa. «Diciamo che non sono in floride condizioni economiche». Cinque anni dopo si spegne all’ospedale di San Marcello Pistoiese. Fra i duemila che lo accompagnano alla discesa definitiva c’è Alberto Tomba, che ha cambiato versante dell’Appennino «per onorare il mio maestro e un grande campione». Nell’88 si erano trovati nel salotto di casa Colò. Alberto con i due ori di Calgary, Zeno con un polmone in meno. «Siamo diversi», aveva detto il vecchio campione al nuovo idolo. «Io sono un solitario, tu un estroverso. L’importante è restare quello che si è».