Specchio, 13 febbraio 2022
Elvo Zornitta, che non era Unabomber
Le cronache sono popolate di mostri innocenti, mostri per l’opinione pubblica, innocenti per i tribunali, soggetti che dopo proscioglimenti, assoluzioni, archiviazioni, dopo anni di tormenti e processi escono di nuovo alla vita. E, nell’ingenuità della disperazione, sperano che l’opinione pubblica dia loro l’atteso ristoro con la riabilitazione. Questi nomi si raccolgono nel volto di Pietro Pacciani condannato in primo grado a più ergastoli per i duplici omicidi commessi dal 1974 al 1985 dal cosiddetto mostro di Firenze. Poi, l’uomo fu assolto in secondo grado ma è morto prima che si potesse compiersi un nuovo processo d’Appello, voluto dalla Cassazione.
Era il 17 gennaio del 1993 quando Pacciani fu arrestato con l’accusa di essere lui il famigerato mostro. Le violenze in famiglia, il carattere istrionico, quell’apparente aria bonaria fecero del contadino di Scandicci il serial killer perfetto. Non è il solo. L’almanacco di questi innocenti infamati è ben nutrito dalla fretta di additare l’assassino di turno.
Un altro lo si ritrova ad Azzano Decimo in Friuli dove vive senza futuro il timido Elvo Zornitta, l’ingegnere dal volto scarno e serissimo, inespressivo, insomma il mostro perfetto, quello che nascondeva bombe in candele, tubetti di sugo, sotto la sabbia, pur di mutilare sconosciuti meglio ancora se inermi fanciulle. Unabomber, figura della mitologia nera, autore di trenta, trentuno o addirittura trentatré attentati tra il 1994 e il 2006 che terrorizzò il triveneto e l’Italia intera facendo brillare ordigni mimetizzati ovunque: dall’uovo esplosivo al supermarket di Portogruaro ai tubi bomba che esplodevano sul sagrato dopo la messa o per strada a Carnevale fino ai tubetti per le bolle di sapone per devastare bambini.
Tra tutte le persone sospettate Zornitta era quello principale. Colpevole di lavorare nella zona degli attentati. Colpevole del fatto che a casa sua vennero trovati petardi svuotati dalla polvere pirica e ovetti compatibili con quelli usati da Unabomber. Colpevole di possedere le competenze tecniche per realizzare i micro-ordigni. Ma queste erano in realtà semplici suggestioni, indizi lievi, niente di più. Nell’ottobre del 2006 arrivò la prova regina: le lame di una sua forbice erano compatibili con i tagli compiuti sul lamierino della bomba ritrovata nella chiesa di Sant’Agnese a Portogruaro. Sulle forbici fu svolto un incidente probatorio che, tramite il metodo dei toolmarks, sembrò confermare in pieno la diagnosi. La scoperta convinse sul momento oltre ai magistrati anche i media locali e nazionali.
Ma il 17 gennaio 2007 l’avvocato Maurizio Paniz, davanti al gip Enzo Truncellitto, ribaltò il risultato della perizia, ipotizzando che una piccola striscia del lamierino fosse stata tagliata con le stesse forbici dopo il sequestro. Quando nuove analisi confermarono questa supposizione, finì sotto inchiesta il poliziotto Ezio Zernar, che risultò aver «truccato» la prova allo scopo di incastrare Zornitta.
Ciò assestò un duro colpo alle indagini nei confronti dell’ingegner Zornitta, il cui fascicolo fu archiviato il 2 marzo 2009 su richiesta della Procura. Zernar fu condannato in primo grado e in appello a due anni di reclusione per falso ideologico e frode processuale. Nel marzo 2012 la Cassazione ha annullato la sentenza d’appello, ordinando la ripetizione del processo. Zornitta uscì dal processo con la vita distrutta e la paura.
Aveva paura della giustizia?
«Ho vissuto e vivo anni tremendi. Avevo paura che Unabomber potesse colpirmi: sono la persona che gli ha fatto interrompere la serie di attentati, che ha avuto la ribalta mediatica al posto suo, sottraendogli la scena. E, in quel periodo, potevo essere perfettamente un suo obiettivo: bastava che mettesse il mio dna su un ovetto o un altro ordigno e diventavo il colpevole perfetto. Senza dimenticare che ancora oggi una persona che non si sa chi sia, vaga e può tornare a colpire. Avevo paura che mia figlia piccola, all’epoca aveva otto anni, potesse venir presa di mira da Unabomber magari con un ovetto lasciato a terra davanti a scuola».
Con chi ne parlava?
«Avevo ansia e terrore. Potevo parlare con mia moglie ma lei era troppo presa dalla storia e quindi era come parlare a me stesso. All’epoca fumavo come un turco e per sicurezza mettevo le cicche in tasca per paura che qualcuno ne raccogliesse una mettendola sul luogo di un attentato per incastrarmi».
Ha fatto causa di risarcimento?
«La causa è ancora in corso e ancora devo pagare un sacco di debiti fatti. Ero direttore di un’azienda di progettazione e ricerca fino a quando, messo alla berlina, sono stato licenziato. Poi sono stato preso come semplice operaio, guadagnando un terzo dello stipendio di prima. Una miseria rispetto alla montagna di debiti accumulata. Con quella busta paga non sarei mai riuscito a onorare i miei debiti in tutta la mia esistenza. I soldi che avevo messo da parte per costruire una casetta sono finiti nelle spese. Mi rimane il terreno che avevo acquistato per realizzare l’edificio. E’ ancora lì, vorrei venderlo ma in questi anni di crisi ha perso di valore e ci rimetterei».
Si fa seguire da uno psicologo?
«Sono passati tanti anni ma ancora non riesco a ripensare a quell’incubo. Sente la mia voce come è affannata? Sono andato qualche volta da uno psicologo di Udine per farmi assistere nel periodo clou poi però, come dice giustamente mia figlia, penso che sia solo il tempo a guarirti, non gli altri…».
Sua figlia?
«Mia figlia dopo questo dramma ha studiato apposta psicologia. Lei ha vissuto ancor peggio di me perché era impotente, vedeva suo padre di fronte a tutto ciò e non poteva fare niente... Cercavamo di non dirle niente ma essendo "purtroppo" intelligente capiva tutto».
Come sta ora?
«Porta cicatrici profonde ma non parliamo di quanto accaduto, non riusciamo. Per fortuna, mia moglie ha un carattere meno timido e più solare del nostro, è riuscita a parlarne, a discuterne, a trovare più facilmente la solidarietà degli altri. Poi c’erano i miei genitori, avevano più di ottanta anni e sono rimasti lì con il cuore spezzato. La mia era una famiglia educata a pensare correttamente, cercando di definire cos’era il male e il bene, senza uscire dalle righe. Prima di questo incubo, nemmeno sapevo cos’era un avvocato per poi scoprire il mondo tra rischi e problemi. Ho dovuto capire come affrontarli in pochissimo tempo».
Beh mica viveva su Marte prima, avrà avuto una vita come quella degli altri…
«No, non è così. Prima il mio era un mondo matematico, di calcoli, di scienza diverso da questo mondo di accuse, problemi, paure, rischi, terrore. Dall’agosto del 2006 fino al 2018 quando è stato condannato nel quinto processo in cassazione l’ispettore della polizia che aveva tagliato il lamerino, ho vissuto sospeso».
L’ispettore è stato condannato, si è sentito meglio?.
«Uno distrugge una vita volontariamente e poi viene condannato a due anni di carcere? No guardi non voglio nemmeno pensarci. Per fortuna ho un infinito debito di gratitudine nei confronti di Maurizio Paniz e Paolo Dell’Agnolo, i miei avvocati, con un rapporto che va ben oltre il loro lavoro. Hanno dato molto a questa causa, hanno dedicato parte della loro vita per risolverla».
Nella gente la sua timidezza, i suoi modi di fare come hanno influito?
«La mia timidezza era indice di colpevolezza. Io sono un timido che è diventato estroverso, sforzandomi per entrare in contatto con gli altri. Se fossi stato una di quelle persone che dopo il lavoro vanno al bar con gli amici, probabilmente sarei stato meno indicato come possibile colpevole perché sarei stato classificato come uno più alla mano, con interessi, amicizie, ma essendo molto riservato, con una vita assai "pantofolaia", con poche relazioni sociali, potevo essere considerato come un uomo misterioso. Non si sapeva bene cosa facessi, chi fossi».
Qual è il suo dolore più grande?
«La perdita di mio padre, mancato due anni fa. Lui mi ha sempre appoggiato e sostenuto durante la vicenda, come in tutta la vita. Mio padre scrisse al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio un appello per il figlio mostro innocente. Non mi disse mai nulla. Ho trovato queste lettere dopo che lui è morto in un cassetto. Ora le tengo sul comodino, ogni sera prima di coricarmi le rileggo».
Zornitta scoppia a piangere ma trattiene le lacrime, compie una fatica enorme per non farmi sentire il suo dolore, proteggere la sua dignità e tornare a una qualche forma di vita.