Avvenire, 13 febbraio 2022
Online i consigli per suicidarsi. Un caso in Gran Bretagna
«Ci dispiace che sia finito qui». Recita così il messaggio di benvenuto di un sito che affiora dalle viscere del Web per suggerire metodi con cui togliersi la vita. Ci si arriva attraverso un’esplorazione, neppure troppo approfondita, che rimbalza tra social network e forum dove si usa poco la parola «suicidio». Alle macabre chat in cui si spiega come annodare un lenzuolo per farne un cappio da stringere al collo o procurarsi sostanze da ingerire o inalare per morire nel sonno si accede, senza grandi difficoltà, digitando frasi in codice e abbreviazioni slang. Non le menzioniamo, intenzionalmente, per non diffondere le chiavi di accesso alle piattaforme, ospitate su server di diversa nazionalità, in cui si consuma la banalità dell’orrore sommerso. Il problema non è nuovo ma è tornato di recente al centro della cronaca britannica nell’ambito della discussione di una nuova legge sulla sicurezza online proposta dal governo al Parlamento per aggiornare la lista dei reati, sempre più subdoli e raffinati, commessi attraverso il web.
Passaggio necessario a perseguire, per esempio, il cosiddetto “cyber flashing”, l’invio anonimo di immagini offensive, tramite funzione AirDrop degli iPhone o bluetooth degli altri smarthpone, a utenti localizzati nelle vicinanze. O per fare la guerra ai troll che sfruttano determinati algoritmi per intercettare persone epilettiche, anche bambini, nel solo intento, a segnalarlo è stata l’associazione britannica Epilesy Society, di portarli alle convulsioni per mezzo di video o immagini lampeggianti. Succede anche questo.
Penney Lewis, esperta di diritto penale e membro della commissione per le Riforme legislative
del Regno Unito, ha accolto con favore la stretta delle istituzioni contro chi, nel Web, «intende deliberatamente fare solo del male». Le aziende che gestiscono piattaforme e server sono chiamate a rafforzare gli accorgimenti tecnici necessari ad abbattere i rischi. Per esempio, ridurre il periodo di fruibilità di alcuni contenuti, impedire a determinati utenti di aprire nuovi account o migliorare la moderazione, umana o automatica, dei forum. Ma c’è chi dubita che una legge basterà a fermare gli abusi.
Joe Nihill, 23 anni, di Leeds, si è tolto la vita ad aprile 2020 dopo aver scambiato in rete decine di messaggi sul modo più efficace e indolore di suicidarsi. Intervistata dalla “Bbc”, sua madre Catherine ha mostrato l’appello con cui il figlio gli ha detto addio: «Fate il possibile, vi prego, per far chiudere quel sito». Abby, 17 anni, di Newcastle, ha provato a togliersi la vita ma, a differenza di Joe, si è salvata. Ha così potuto raccontare di essere stata catapultata nell’oscuro mondo di chi incoraggia il suicidio, e spiega pure come farlo, solo per aver cliccato una frase sul tema della tristezza. I post di Roberta Barbos, 22 anni, studente dell’Università di Glasgow, erano invece dedicati alla solitudine. La facilità con cui si finisce in trappola è disarmante quando l’affollamento in chat a tarda notte. Gli utenti paiono conoscersi tra loro da tempo. Si scambiano indicazioni su come migrare su altre pagine in caso di censura prima di tornare a discutere quale compilation musicale scegliere per l’atto finale. «Ho fissato la data», scrive qualcuno. «Hai bisogno di compagnia?», gli chiede un altro. «Spero che vada bene – aggiunge – buona fortuna». Chi ha trovato la forza di uscire da questi buchi neri ricorda bene lo sgomento iniziale provato dinanzi al cinismo espresso nei confronti del dolore e delle fragilità altrui. Poi diventa “normale”. Stupisce, piuttosto, che qualcuno, una volta su mille, intervenga a dire: «Non farlo, parliamone, scrivimi in privato».