il Giornale, 13 febbraio 2022
Mauro Ferrari combatte il cancro. Intervista
Mauro Ferrari ha un curriculum lunghissimo, che bisogna per forza sintetizzare. Nasce a Udine nel ’59, si laurea in Matematica a Padova, vince una borsa in Ingegneria a Berkeley, dove diventa professore e, poi, succede una cosa terribile nella sua vita: la moglie Marialuisa muore, a 32 anni, lasciandolo con tre figli piccoli. E allora diventa un pioniere: dedica la sua vita alla ricerca contro il cancro, quelle metastasi al polmone e al fegato che hanno ucciso Marialuisa, fonda le basi della nanomedicina e diventa, in trent’anni di carriera, scienziato, imprenditore e dirigente dei maggiori ospedali e istituti di ricerca americani contro il tumore. I successi però, come direbbe lui, sono «la superficie»: quello che sta sotto, con tutte «le onde» che lo hanno portato fino qui, come quelle che si abbattono lungo la costa della California, dietro casa sua, lo racconta in Infinitamente piccolo, infinitamente grande (Mondadori), una autobiografia piena di passione e di humour che si muove più tra sax, fede, basket, arte e calcio (rigorosamente rossonero) che fra tecnicismi scientifici.
Lei scrive: «Duke Ellington è il mio maestro di scienza».
«Certo. Vorrei fare scienza come Rivera giocava a pallone, e come Ellington suonava; perché la scienza, quella buona, che è poca, nasce come lui dava inizio alla musica».
Come?
«Prendeva le persone e dava loro spazio, creava un ambiente musicale tale che potessero essere sé stesse ed esprimersi. Io scrivo qualche melodia, dirigo l’orchestra, ma l’importante è permettere ai miei musicisti di esprimersi».
Così si sviluppa la creatività?
«La creatività è un processo che funziona allo stesso modo, nella musica e nella scienza. C’è gente che pensa in modo molto mirato, scienziati bravissimi che fanno una cosa alla volta. Io non ne sono capace. Ha presente San Bonaventura?».
Il teologo?
«Uno dei primi francescani. Beh, una volta a una conferenza ho detto che fare scienza è come pregare... Nella scienza è così, si entra con umiltà. San Bonaventura ha scritto una preghiera magnifica che inizia con: Trafiggimi!, Signore, travolgimi col tuo amore. Questo trasporto viene dall’idea di servizio e questo è lo scienziato che voglio essere io, e che lavora con me. Un servitore».
La scienza è «un’avventura d’amore»?
«Sì. Ecco la foto di Marialuisa. Questa è stata la missione che mi ha lasciato: fare qualcosa contro le metastasi polmonari e epatiche, la mia fissazione. È un’avventura d’amore? Ma le cose che non lo sono, nella vita, non valgono la pena. Ognuno di noi ha ricevuto questo regalo: la macchinetta che trasforma il proprio dolore in cose utili per gli altri».
Perché c’è diffidenza verso la scienza?
«Perché ce la tiriamo troppo da scienziati, c’è un atteggiamento da Mosè che arriva con le leggi in mano. La gente va in tv e fa a gara a chi è lo scienziato più popolare».
Dice che i virologi hanno brillato in tv, ma la soluzione al Covid è arrivata da altro...
«Insieme alla biotecnologia, la nanomedicina è una componente necessaria nei vaccini a Rna messaggero: costruisce il sommergibile per trasportare il vaccino nei posti giusti. La virologia è fondamentale per capire come si diffonde il virus, ma la soluzione è venuta da altri mondi».
Uno è il suo.
«Immagini che emozione. Trent’anni fa ho iniziato a fare particelle che trasportavano i farmaci e tutti mi guardavano come un alieno; poi, per quindici anni, eravamo in pochissimi, fino a che nei primi anni 2000 tutti volevano fare cose nano e nel 2003 ho ricevuto questo incarico, di mettere insieme il programma Usa di nanotecnologie applicate al cancro... Oggi ci sono dozzine di farmaci anticancro e non solo, oltre 120 sperimentazioni cliniche con nanoparticelle, ma la nanociliegina è stata questa dei vaccini».
Perché paragona la ricerca sul cancro a una partita di basket?
«Una volta dovevo fare un discorso a dei giocatori dell’Nba. Di che cosa potevo parlare, del campionato provinciale vinto con la mia squadra a Udine? Così ho detto che la ricerca sul cancro è come una partita di basket, con alcune differenze: la prima è che sei sempre 30 punti sotto l’avversario, il che non significa che tu non possa vincere ma, se sei un tipo che smette di giocare per l’angoscia esistenziale, allora è meglio che cambi mestiere; seconda, una partita dura 48 minuti, io da trent’anni gioco sempre la stessa, perché passano in media 15-20 anni da quando un’idea scientifica nasce a quando si traduce in farmaco; terza, le partite in una stagione sono più di 80, nel mio lavoro ne hai una, e dura tutta la vita. Quindi va giocata bene».
Il farmaco a cui è arrivato, ML-016, ha trovato i finanziamenti per arrivare in clinica?
«Mentre scrivevo il libro. Speravo che ci fosse una forte componente italiana, anche se io sono a due passi dalla Silicon Valley e sarebbe stato facile guardare qua intorno, e così è stato. L’annuncio sarà dato a breve».
La scienza è «autobiografia»?
«Sì. Sono storie, storie vere. Le colonne della scienza sono tre: la ricerca della conoscenza, che è necessaria; poi il perché, le grandi teorie; infine il livello più profondo, le emozioni. È lì che si gioca la partita. Per questo la scienza va fatta come la musica e l’arte e tutte le espressioni umane».
E i fallimenti?
«La mia specialità. A Harvard ho intitolato la mia conferenza 29 anni di fallimenti. E da ciascuno è nato qualcosa».
Perché ha lasciato il Consiglio europeo della ricerca?
«Sono arrivato ed è scoppiata la pandemia. Se tu sei in una casa in fiamme e hai un idrante, che fai?».
Provi a spegnere l’incendio?
«Mi sentivo a disagio a non fare niente contro il Covid. Con rispetto, è un ente magnifico, che fa cose straordinarie, la scienza fatta per la scienza, gli scienziati ai quali non puoi dire che cosa debbano fare perché lo sanno solo loro... Ho portato il mio secchiello d’acqua da un’altra parte».
Scrive: «Nasce tutto dallo spirito... almeno tutto quello che conta».
«La fede è importante per me. C’è questo concetto che non si debba dire di che fede si è, ma io sono dell’opinione opposta. Ho diretto un grande ospedale, ti trovi in situazioni in cui uno mette la sua vita e quella dei suoi cari nelle tue mani; si deve fidare di te, e come fa a fidarsi, se tu neanche gli dici in che cosa credi? La fede va dichiarata. E se mi chiedono: come fai a essere scienziato e credente?, io rispondo che per me non è possibile altrimenti. Tutto nasce dallo spirito? Certo. E il resto va beh. Chissà se c’è».