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 2022  febbraio 13 Domenica calendario

Il libro di Sergio Rizzo sulla casta

Dopo un periodo di inabissamento, la saggistica anti casta è tornata sulla superficie del mainstream editoriale. Non siamo ancora ai fasti di quindici anni fa, quando tutto era casta sugli scaffali delle librerie (medici, professori, avvocati, giornalisti) e quindi, inevitabilmente secondo la lezione sciasciana, niente è casta. Però il fenomeno merita attenzione, anche per le implicazioni metaeditoriali. Sergio Rizzo, nel 2007 autore con Gian Antonio Stella del libro La casta che del genere fu opera prima e omnia, torna sul luogo del delitto con Potere assoluto. I cento magistrati che comandano in Italia (Solferino. Il titolo riecheggia un thriller del 1997 di Clint Eastwood tratto da un romanzo di David Baldacci. Ma lì si parlava di sesso, sangue e Casa Bianca. Qui i cento sono i giudici del Consiglio di Stato, vertice della giurisdizione amministrativa che sentenzia sui ricorsi contro i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni: dal rifiuto di un certificato a una concessione edilizia, da un appalto miliardario alla nomina di un procuratore della Repubblica. Il Consiglio di Stato, per la verità, ha una natura anfibia, perché funge anche da organo consultivo del governo. Si può essere contemporaneamente giudici e consulenti del giudicato? La disputa è lunga e complessa quanto lo Stato novecentesco, che essendo affetto da ipertrofia di funzioni amministrative ha dilatato anche il contenzioso che ne deriva. I difensori sciolgono l’apparente contraddizione risalendo al retaggio storico del Consiglio di Stato, istituito 190 anni fa dal re sabaudo Carlo Alberto come «consiglio al servizio del sovrano» e successivamente evoluto in senso liberale come «strumento per la giustizia nell’amministrazione», fino alla definitiva collocazione costituzionale. I detrattori, viceversa, ne denunciano l’intrinseca natura patologica, se non criminogena in termini di conflitti di interessi. A questo secondo partito è iscritto Sergio Rizzo, e non da oggi. Il libro è in fondo un atto di accusa contro questi «magistrati assolutamente sui generis, così sui generis che molti di loro non fanno nemmeno quel lavoro», poiché «sono i più vicini alla politica, al punto da indirizzarne le scelte più importanti». Al di là delle funzioni collettive, il «potere assoluto» si sublima nelle carriere individuali, che spesso li portano dentro la sala macchine della politica, nei ministeri, dove vengono collocati «fuori ruolo» per chiamata diretta, «magari con una gratifica per il disturbo di cambiare ufficio». Capi di gabinetto, capi legislativi, segretari generali. Nel governo Draghi ce ne sono undici: il 10% dell’intero Consiglio di Stato. Occupano molti posti chiave, a cominciare da Palazzo Chigi». Consiglieri di Stato sono le tre figure chiave della struttura al vertice dell’esecutivo: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, «la figura politica più importante perché braccio operativo del premier», il segretario generale Roberto Chieppa, il capo degli affari giuridici Carlo Deodato. Tutti già «fuori ruolo» in precedenti governi. Ogni casta ha la sua narrativa, il suo linguaggio, la sua antropologia. La casta per eccellenza era provinciale, folcloristica, colorata: i famigli piazzati qua e là, le pianeggianti comunità montane a 39 metri sul livello del mare, i vitalizi da nababbi. La «ultracasta» del Consiglio di Stato è una casta borbonica, leguleia, grigia. La asettica biografia di Gerardo Mastrandrea, protagonista del primo capitolo del libro perché ubiquo tra ministero dell’Economia e giustizia sportiva, non potrà mai rivaleggiare con la cornucopia degli aerei di Stato che volano 37 ore al giorno o delle cinque buste paga garantite come premio di consolazione a un politico trombato alle elezioni. Anche perché i doppi e tripli incarichi dei magistrati amministrativi sono per lo più gratuiti e la cornucopia degli arbitrati a sei cifre (che vedevano lo Stato in causa con i privati soccombente nel 95% dei casi) è un ricordo ormai seppiato. Dov’è, dunque, lo scandalo? Nel potere per il potere, è la tesi del libro: accentrato, autoreferenziale, al punto da potersi definire assoluto benché in forma paradossale. L’intreccio di incarichi, nomine, consulenze, associazioni professionali, consessi pubblici, bonifici, mogli e «strane coincidenze» è straniante, al netto dei casi in cui degenera in malaffare. Bonifici, holding lussemburghesi, dazioni di denaro, collegi addomesticati: è sottobosco concimato, tra gli altri, da personaggi come l’avvocato Amara e il lobbista Centofanti, al centro di mille inchieste giudiziarie, da Milano a Perugia, da Siracusa a Roma. Cose che capitano «in quel mondo dove tutti sanno quasi tutto di tutto». Depurato da uno scandalismo talvolta degno di miglior causa, resta il nodo di Gordio che avviluppa potere politico, diritto, amministrazione pubblica, efficacemente descritto nel capitolo di taglio storico intitolato Il peccato originale. Invano qualcuno ha provato a reciderlo con un fendente secco, ma la spada (o la ruspa, ogni epoca ha una sua epica) si è rivelata meno affilata di quella di Alessandro Magno. Ora ne se riparla: anche ai titolari del «potere assoluto» si pensa quando si propone di bloccare le «porte girevoli» che portano i magistrati a varcare quelle dei palazzi della politica, salvo rientrare lestamente negli androni giudiziari. «L’infezione da curare», scrive Rizzo. Non facile, nel Paese in cui il diritto come disciplina autonoma rispetto all’etica e alla politica, amministrata da un ceto di esperti, si afferma non nel Regno sabaudo o nella Repubblica della partitocrazia, ma nell’antica Roma, in rottura con l’esperienza greca come spiega mirabilmente un saggio di un paio di anni fa dello storico Emanuele Stolfi. Basti dire che la puzza al naso dei giuristi romani era tale da trattare come un paria persino Cicerone. Contigui alla politica, ma non succubi. Lì, dunque, nel bene e nel male, nasce il «potere assoluto» che crea e amministra quella che Aldo Schiavone ha chiamato «sindrome prescrittiva», che rifugge la mitologia sussumendo anche le relazioni umane sotto modelli astratti e impersonali, replicabili all’infinito. Come infinita è la casta, in fondo. —

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