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 2022  febbraio 13 Domenica calendario

Intervista a Giorgetti

«Restiamo oggettivi», dice Giancarlo Giorgetti dalla quarantena dove aspetta di tornare negativo. Bisogna esserlo anche rispetto a una situazione che sfugge allo sguardo della politica: la trasformazione energetica, tecnologica e industriale rischia di aprire ferite sociali («milioni di disoccupati», dice lui) e generare contraccolpi nelle urne. Anche per questo – dice il ministro dello Sviluppo – della cronaca «è meglio non parlare, perché non cambierebbe molto: c’è stato un clima di sospensione durato fino al voto per il Quirinale, quindi i partiti saranno proiettati sempre di più verso il traguardo delle elezioni. Il governo deve lavorare nel modo più efficace possibile in questo quadro».
Ministro, Mario Draghi è duro sulle frodi attorno ai bonus edilizi. Concorda?
«Sì, del Superbonus bisogna parlare perché da più parti si chiede che torni la politica industriale in Italia».
Che c’entra con il Superbonus?
«C’entra, perché in legge di Bilancio il governo aveva cercato di limitarlo, poi il Parlamento ha deciso di allargare le maglie, anche troppo. Ora costerà moltissimo. Stiamo mettendo un sacco di soldi sull’edilizia che, per carità, può aver avuto senso sostenere nella fase più dura della pandemia e di certo contribuisce chiaramente alla crescita. Ma ora droghiamo un settore in cui l’offerta di imprese e manodopera è limitata. Stiamo facendo salire i prezzi e contribuiamo all’inflazione».
Sussidiare l’edilizia non spinge molto la produttività. Non era meglio pensare all’industria?
«Chiediamoci cosa può fare lo Stato di fronte alla rivoluzione digitale e energetica o allo choc che investe l’automotive, che deve uscire dai modelli endotermici tradizionali. Invece diamo soldi ai miliardari per ristrutturare le loro quinte case delle vacanze. Ride tutto il mondo. Intanto rischiamo che dilaghi la disoccupazione nell’industria spiazzata dall’imposizione del passaggio all’auto elettrica entro il 2035. Se ci sono decine di miliardi per ridisegnare le filiere industriali, bene. Ma in caso contrario, che stiamo facendo? Droghiamo certi settori e ne lasciamo a languire altri, quelli strategici per l’Italia».
Carlos Tavares di Stellantis dice che il passaggio all’elettrico è una scelta politica e avrà costi sociali. Volkswagen ci investe 86 miliardi. Lei con chi sta?
«La penso come Tavares. Va abbattuta la Co2, sì. Ma manca una valutazione industriale, sulla sovranità tecnologica e l’autonomia strategica dell’Europa. In tutta questa febbre per l’auto elettrica, chi fornisce le materie prime è la Cina. È lì il controllo di gran parte del litio, cobalto, silicio. Significa mettere il primo settore manifatturiero d’Europa in mano ad altri, lontano da noi. Possibile che nessuno ci pensi?».
Bruxelles non impone l’auto elettrica: chiede di uscire dal motore a combustione tradizionale entro il 2035.
«No, ma l’impostazione è chiara. Quando alla Cop26 di Glasgow c’è stata la dichiarazione sull’ineluttabilità dell’elettrico, solo la Germania e noi abbiamo votato contro».
Draghi era d’accordo?
«Mi ha chiamato, mi ha chiesto perché mi ero opposto e gliel’ho detto. Siamo per il principio di emissioni zero, ma sulla base della neutralità tecnologica. L’idrogeno può diventare competitivo. E in Italia abbiamo brevetti fra i più avanzati nei biocarburanti. Perché non viene riconosciuto? E anche l’auto ibrida, che ora non piace, può avere un ruolo. Soprattutto in assenza di una rete adeguata di colonnine di ricarica. Con questa furia per l’elettrico ideologica, etica, rischiamo l’autogol».
In Italia ci sono 450 imprese e 70 mila occupati nella produzione di componenti del motore tradizionale. Che sarà di loro?
«Se Volkswagen punta sull’elettrico, siamo molto esposti».
Eppure il governo non sembra avere una politica industriale. Neanche nel Piano di ripresa (Pnrr).
«Il Pnrr si potrà ritoccare, perché il mondo cambia così in fretta che non ha senso lasciare tutto fermo alla foto di un solo momento. Quanto alla politica industriale, va sviluppata. Lo stiamo facendo».
Come?
«In primo luogo dobbiamo reintrodurre incentivi per attivare il mercato di tutti i veicoli ecocompatibili, non solo elettrici. Poi siamo molto vicini, questione di pochi giorni, alla firma per la Gigafactory di Termoli dove Stellantis farà le batterie. Ma la nuova filiera elettrica richiederà comunque metà della manodopera oggi impiegata da quella tradizionale. Le imprese dell’automotive vanno aiutate a riconvertirsi, rendendo disponibili gli accordi di programma e i contratti di sviluppo. Ma sono strumenti troppo lenti, burocratici. Questo settore va finanziato massicciamente, lo abbiamo già chiesto al ministero dell’Economia».
Per fare cosa?
«Incentivi ad aggregarsi, ingresso nelle filiere a monte e a valle dell’elettrico. Per esempio, nel riciclaggio delle batterie. O nella produzione di bus verdi in Italia, altrimenti i 4 miliardi che abbiamo su questo nel Pnrr finiremo per spedirli in Cina».
Incentivi
Vanno dati per il mercato di tutti i veicoli ecologici, non solo elettrici. E a settori come il riciclaggio delle batterie e la produzione di bus verdi
Comunque l’elettrificazione avanzerà. Noi dove la prendiamo l’energia? Anche qui la strategia non è chiara.
«Invidio Emmanuel Macron, che annuncia sei nuove centrali nucleari. Da noi purtroppo è un tabù. Eppure se ora tutte le macchine fossero elettriche, non sapremmo come alimentarle. Dunque le rinnovabili sono una risposta, ma non la sola. Per fortuna il gas è tornato fra le fonti ammesse in Europa per la transizione. Dobbiamo diversificare al massimo i fornitori, rafforzare i rigassificatori, aumentare la produzione nazionale. Ma anche qui, niente illusioni: non si tornerà ai prezzi bassi di due anni fa, perché la Cina deve uscire dal carbone e inizierà a drenare molto gas».
Si pone il problema degli aiuti sul caro-bolletta. Quanti soldi ci sono?
«Non si vuol fare uno scostamento di bilancio già a inizio anno, che invece servirebbe, dunque si raschia un po’ il barile per trovare cifre importanti anche se non risolutive. Tutti pensano all’industria energivora classica, da aiutare. Ma anche per una pizzeria o una piscina l’energia è il 30% del conto economico».
Non era meglio dare subito aiuti sul caro-bolletta selettivi, non anche ai benestanti?
«Sì, anche se non è semplicissimo. Credito d’imposta al 20% sugli aumenti in bolletta rispetto al 2019 si può aumentare in base alle risorse disponibili. Di certo per distribuire reddito bisogna produrlo e se non tuteliamo i settori industriali, non ci saranno risorse. I politici dovrebbero andare nelle fabbriche a vedere cos’è la creazione di ricchezza. Qui se un benestante si ristruttura casa a spese dello Stato mentre l’industria non ce la fa a andare avanti, qualcosa non mi quadra».
Che ne è del grande investimento nella produzione di chip che l’americana Intel doveva fare in Germania, Francia e Italia?
«Bruxelles ha proposto un Chips Act, che sospende i vincoli sugli aiuti di Stato in questo settore. Ma l’investimento di Intel in Italia ed Europa non è solo un fatto industriale, è geostrategico. Spero che non prevalgano le furbizie e gli egoismi nazionali, sarebbe inaccettabile».
Teme che la Germania si prenda tutto mettendo più soldi?
«Non ce l’ho con nessuno. Certo i tedeschi difendono bene i loro interessi».
Le diranno che lei è antimoderno, contro la transizione verde, antieuropeo.
«Per niente. Difendere il clima è necessario e l’Europa è la nostra risorsa. Ma non posso accettare che il prezzo siano milioni di disoccupati, con conseguenze sociali e quindi politiche molto serie. L’ho detto anche a John Kerry, l’inviato della Casa Bianca sul clima».