la Repubblica, 13 febbraio 2022
La strategia di Putin sull’Ucraina
L’ invasione della Georgia nel 2008, l’annessione della Crimea nel 2014,gli interventi “di pace” in Nagorno-Karabakh nel 2021 e in Kazakistan a gennaio di quest’anno, descrivono la volontà di usare lo strumento militare per ritagliarsi un ruolo di protagonista indiscusso e decisivo nei territori dell’ex Urss così come l’intervento in Siria nel 2015 a sostegno di Bashar Assad, in Libia nel 2017 a protezione di Khalifa Haftar e i mercenari della Wagner disseminati dalla Cirenaica al Mali fino al Centrafrica suggeriscono la volontà di assicurarsi basi operative – terrestri, aeree e navali – sullo scacchiere del mediterraneo-africano come neanche i sovietici riuscirono ad avere durante la Guerra Fredda. «Putin adopera lo strumento militare con rapidità ed efficacia al fine di essere presente ovunque possibile per riassegnare alla Russia un ruolo strategico globale come era ai tempi dell’Urss» spiega da Bruxelles un alto ufficiale della Nato, sottolineando come l’efficacia delle mosse del Cremlino si debba anche ad una “catena di comando assai corta” basata sull’intesa, politica e personale, di Putin con il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il capo delle forze armate, generale Valery Gerasimov. Su tale sfondo, schierare quasi 140 mila soldati con artiglieria e carri armati in abbondanza attorno all’Ucraina rappresenta una notevole prova di forza perché si accompagna ad una serie di condizioni poste per iscritto alla Nato ed agli Stati Uniti al fine di ridefinire a proprio vantaggio l’attuale equilibrio strategico in Europa, frutto della dissoluzione dell’Urss al termine della Guerra Fredda. Mosca sa bene che la Nato non può accettare condizioni sul proprio assetto futuro senza perdere credibilità ma il punto è che Putin con questa mossa cerca interlocutori nell’Alleanza, al fine di scompaginarla dall’interno. L’intento non è negoziare bensì mettere a soqquadro la Nato. Se facciamo attenzione alla modalità di gestione della crisi in Ucraina da parte di Mosca è facile rilevare come la prova di forza militare verso il fiume Dnepr si accompagna ad una raffica di mosse diplomatiche tese ad innescare dialoghi separati con i maggiori Paesi Nato ovvero Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania. Se Gerasimov è il determinato regista dell’assedio navale e terrestre a Kiev, Lavrov è il raffinato architetto di una parallela offensiva negoziale il cui fine non sembra tanto arrivare ad un’intesa quanto portare il subbuglio nel fronte avverso. Ed è un approccio che sta pagando perché da un lato Mosca tratta con Washington – con tanto di documenti scritti su armamenti, esercitazioni e assetti futuri – mentre dall’altro bacchetta Londra in maniera assai colorita, corteggia Parigi per stimolarne le ambizioni e si giova delle evidenti differenze di opinione nel nuovo governo tedesco. Insinuando con efficacia negli europei il dubbio che l’Ucraina sia in realtà al centro di una sfida sulle forniture di gas al Continente, con Washington che vuole ostacolare quelle di Mosca. A ben vedere, i risultati ottenuti da Lavrov sul terreno diplomatico sono già più significativi di quanto potrebbe raccogliere Gerasimov se guidasse l’aggressione: senza neanche sparare un colpo, Mosca è riuscita a far emergere significative differenze di posizione fra gli alleati. E non solo nel linguaggio diverso fra Biden, Johnson, Macron e Sholtz. Basti pensare che, durante alcune riunioni riservate in un Paese alleato, c’è chi ha ipotizzato di piegarsi al diktat russo contro nuovi allargamenti ad Est della Nato, proponendo di limitarlo ad un periodo di 5-7 anni. Mostrandosi consapevole delle vulnerabilità dell’Alleanza, il presidente americano Joe Biden ha reagito accogliendo alla Casa Bianca l’alleato più incerto – il cancelliere tedesco – per recapitare a Putin la contromossa più abile ovvero: in caso di aggressione all’Ucraina il gasdotto Nord Stream 2 non si farà e il danno economico per la Russia sarà assai maggiore di ogni possibile vantaggio tattico in Europa. Il duello fra Putin e la Nato è dunque una sfida ibrida, dove armamenti e diplomazia sono tasselli di un unico mosaico, assieme all’uso di hacker e social network su entrambi i fronti. È una strategia che il generale Valery Gerasimov nel 2019 illustrò con estrema chiarezza, spiegando come la Russia aveva bisogno di una nuova dottrina per “evolvere da attrito e distruzione a conflitto globale e soft power” al fine di poter rispondere alla sfida degli Stati Uniti. Da qui la necessità di accompagnare la più tradizionale attività militare con azioni di “difesa attiva” ma “indirette” perché tese ad indebolire l’avversario con ogni sorta di altri mezzi, dalle operazioni elettroniche alla diplomazia più classica. Se dunque nel 2013 Gerasimov aveva per la prima volta ipotizzato “guerre ibride” con l’articolo pubblicato sul Military-Industrial Kurier, sei anni dopo ha compiuto il passo seguente, declinando l’uso dell’arsenale militare in maniera innovativa. Ad esempio immagina che l’Occidente non sia in grado di sostenere una guerra d’attrito nel lungo termine soprattutto se collegata a “obiettivi politici” perché il fronte interno negli Usa o in altri Paesi Nato non consente di sostenere il rischio di un’escalation. C’è dunque da chiedersi se non è proprio questo scenario ibrido a cui ora Putin si affida: una guerra di attrito sull’Ucraina nella convinzione che la Nato non riuscirà a rimanere a lungo compatta. D’altra parte anche l’amministrazione Biden sta usando sempre più spesso mezzi ibridi per contrastare i russi, basti pensare all’uso sistematico delle informazioni di intelligence molto dettagliate con cui da almeno due mesi il Pentagono anticipa le mosse del Cremlino sull’Ucraina – dallo schieramento delle singole unità alle comunicazioni fra alti ufficiali – al fine di ostacolare i piani di Gerasimov per «evitare di essere presi di sorpresa come avvenne con la Crimea nel 2014», spiega James Clapper, ex direttore nazionale dell’intelligence Usa. In tale cornice è difficile ignorare come finora l’Italia sia rimasta nel complesso defilata nella crisi: il nostro Paese è certo fedele all’Alleanza, e la stretta collaborazione militare in atto dagli aerei in Romania alle truppe in Ungheria lo conferma, ma sul fronte diplomatico è stato assai prudente, fino al punto da far immaginare al Cremlino di poter aprire un canale di dialogo diretto su temi commerciali con le nostre maggiori imprese. La coincidenza fra escalation militare in Ucraina ed elezione del nuovo Capo dello Stato può spiegare il temporaneo basso profilo avuto dal governo Draghi. E la scelta del premier di dirsi a favore di sanzioni in caso di invasione è stato, pochi giorni fa, un primo chiaro segnale di maggior impegno. Non è tuttavia un mistero che dentro la coalizione di governo convivono posizioni assai diverse sui rapporti con la Russia – e dunque sulla crisi in Ucraina – ma è interesse del premier fare chiarezza in merito, per non indebolire la credibilità del nostro Paese nelle alleanze.