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 2022  febbraio 12 Sabato calendario

Luciano Bianciardi ricordato dalla figlia Luciana

Tutto sommato, io sono il frutto dell’estremo tentativo dei miei genitori di rimettersi insieme. Tentativo fallito, anche se a ben vedere sulla sua riuscita c’era poco da scommettere. I miei dunque erano separati da prima che io nascessi, così il mio concepimento fu la cesura, il taglio di un rapporto.
Il babbo io l’ho vissuto molto poco. Ricordo poche occasioni di una sua visita quand’ero piccola: una data però non mancava mai in questa rarefazione di rapporto, quella della Befana. Tanto che per me Babbo e Babbo Natale, che arrivavano a distanza di due settimane l’uno dall’altro, si confondevano in una dimensione tra favola e realtà. Ero comunque abbastanza serena, protetta dalla bugia che il babbo era lontano perché doveva lavorare, ma che ci pensava e ci voleva bene; come Babbo Natale, insomma, che si fa vedere solo una volta l’anno ma lavora incessantemente pensando a te.
Babbo scriveva. Scriveva libri, scriveva sui giornali, e scriveva lettere a noi: e io, appena imparato a scrivere dalla nonna maestra, rispondevo a quelle lettere. Una volta gli chiesi che cosa ci facesse «costaggiù»: era un avverbio che avevo imparato chissà dove, ma mi piaceva, mi pareva forte, con quella «costa» a fargli da spalla. Gli scrissi che sarebbe stato meglio se fosse venuto lì, da noi, per sempre. Lui mi rispose con il consueto ritardo, sgridandomi perché l’avverbio giusto sarebbe stato «costassù», visto che Milano era più a nord di Grosseto. Del fatto che, su o giù che fosse, la mia richiesta era ben un’altra, non fece parola.
Un giorno, avevo circa 8 anni, passeggiavo con mio padre sulle Mura di Grosseto, la passeggiata classica dei grossetani. Lui mi chiese di raccontargli quello che facevo, quello che mi piaceva. Io rimasi in silenzio, pensando a quello che avrei potuto dire: tutto mi sembrava banale nella mia vita, di fronte a un babbo che sapevo famoso. Volevo un episodio che lo colpisse, che mi descrivesse come speciale. All’improvviso l’illuminazione. Ero iscritta all’azione cattolica e poco prima avevo «dato l’esame» per passare dalla categoria delle Beniamine (dai 6 ai dieci anni) a quella delle Aspiranti (dai 10 ai 15 anni). Quello sì che era un traguardo da raccontare. «Sai, babbo, ha fatto l’esamino dell’Azione cattolica e sono diventata aspirante», gli dissi, tutta contenta. «Ah, bene...» , fece lui, poco convinto. «E a che cosa aspirate?». Ecco, quella era una domanda che non mi aspettavo. Che «aspirante» fosse il participio presente del verbo aspirare, certo, lo sapevo, era nella grammatica che la signora maestra ci spiegava. Ma non l’avevo mai pensata in quel modo, per me quella era un’etichetta, una qualifica, non un verbo che doveva avere per forza un complemento, maledetta grammatica. E intanto il tempo passava, il mio silenzio era per me intollerabile, eravamo quasi al bastione Garibaldi, da lì si scendeva per andare a casa di nonna Adele, lì sarebbe finita la mia giornata con il babbo. Urgeva rispondere. «Aspiro ad andare in Cielo con Gesù». E qui il mio babbo famoso proruppe in una bestemmia delle più orrende. Ero pietrificata, consapevole della gravità di quella pronuncia, e glielo dissi, in lacrime: «Babbo, ma è una bestemmia!». E lui, accortosi di quell’enormità: «No, no, se la scrivi tutta attaccata e con la doppia d non è bestemmia...».
Del mio babbo da giovane mi parlava qualche volta mia zia, sua sorella: naturalmente con l’affettuosa narrazione mitica che l’essere sorella minore e di uno scrittore già noto comportava. Oltretutto, zia Laura era stata anche allieva di suo fratello negli anni della guerra, quando per le supplenze si ricorreva agli studenti universitari dei primi anni, non ancora richiamati: mi dipingeva un professore fuori dagli schemi, non sempre ben accetto alla presidenza, che portava le sue allieve a fare scampagnate in bicicletta e insegnava il latino con metodi a dir poco innovatori. E fu proprio "scolastica" la molla che fece scattare l’inizio di un rapporto più forte con mio padre: dovevo scegliere il liceo che avrei frequentato e che mia madre e mia nonna mi indicavano perentoriamente nel liceo classico, secondo loro «più adatto alle ragazze»: le materie scientifiche non si addicevano a una Cornelia.
Io più che Cornelia mi sentivo un’Amazzone, mi piacevano la matematica e le lingue straniere, che in un percorso di liceo classico erano fortemente mutilate. Pensai che uno come il babbo, che difendeva le libertà altrui sui giornali, avrebbe potuto difendere la mia libertà di scelta. Gli scrissi, gli chiesi di venire a Grosseto, ma non per qualche ora: avevo veramente bisogno di lui. Lui arrivò il giorno dopo. Prese alloggio in albergo: mia mamma era stata perentoria su questo. E siccome l’albergo era proprio sulla strada che lei faceva ogni giorno per andare in negozio... lei cambiò strada. Ah, io mi ero poi iscritta al Classico, l’arrivo del babbo paladino delle libertà non aveva decretato il successo della mia piccola personale rivoluzione.
Babbo mi veniva ad aspettare all’uscita della scuola, quella dove aveva insegnato. Il preside non era cambiato, lo guardava sempre con sospetto, forse si chiedeva come mai quello scapestrato avesse avuto tanto successo con i suoi libri e con i suoi articoli. Andavamo a pranzo insieme, poi era l’ora dello studio per me e del lavoro per lui. Aveva fatto mettere due scrivanie nella camera, una di fronte all’altra, e aveva inventato un gioco: quando lui diceva CAMBIO! Bisognava scambiarsi di posto, io traducevo Jack London, lui faceva le mie versioni di greco. Ed era bravissimo, a differenza di me: scriveva su una vecchia Olivetti manuale, infilando foglio dopo foglio e inserendo sempre una velina con la carta carbone; finita la cartella, faceva due mucchietti: uno di carte veline, l’altro di fogli destinati all’editore. Correggeva pochissimo, le frasi gli venivano fuori in un italiano perfetto, senza sbavature, senza incertezze, come se magicamente nella testa la frase gli entrasse in inglese e gli uscisse in italiano, senza sforzo, senza contorcimenti. Lo invidiavo, e lo invidio tuttora, sembrava che tradurre per lui fosse un’operazione senza fatica. Riusciva a fare anche venti cartelle al giorno, senza fermarsi, battendo sui tasti e infilando e sfilando carta e veline e carta carbone. Finita la «dose quotidiana di battonaggio traduttorio», come chiamava lui i pomeriggi di lavoro e studio, uscivamo a prendere un po’ d’aria. Quel babbo ritrovato non mancava mai di stupirmi: la legge sul divorzio, che a me sembrava una importante conquista sociale, a lui non piaceva, e diceva che se vi fosse stato un referendum (cosa che poi fu, ma lui non c’era già più) avrebbe votato contro. «Contro il divorzio, babbo? Tu sei contro il divorzio?». «Certo» mi disse una volta lui. «Perché non dovremmo lottare per avere il divorzio: dovremmo lottare per abolire il matrimonio».
La vita agra non la lessi quando uscì (avevo 7 anni, troppo piccola); la lessi in prima media, quando cominciai a capire chi era il mio babbo. Mia nonna, la madre di mio padre, ovviamente comperava tutti i giornali in cui comparivano gli articoli del figlio, ivi compresi quelli che a loro tempo erano ritenuti giornali «scandalosi», come ABC, che mostrava sì le foto di qualche ragazza scollacciata ma affrontava temi importanti come l’aborto, il divorzio ecc. Su ABC c’era una rubrica di educazione sessuale curata da Renata Pisu, la sinologa, che però si firmava con lo pseudonimo di Cristina Leed.
Mia nonna nascondeva le riviste che riteneva sconce in una cassapanca nel corridoio di casa sua. Trovai la chiave, trovai ABC e naturalmente mi misi a leggere la rubrica di educazione sessuale. La leggevo con il vocabolario accanto, perché termini come clitoride, punto G, orgasmo vaginale eccetera mi erano completamente sconosciuti. Per me era una sorta di decrittazione, di traduzione, come da una lingua straniera. Poi la nonna scoprì le mie letture segrete, e nascose meglio la chiave della cassapanca.
Ma intanto avevo deciso che dovevo leggere le opere paterne. Trovai una copia della Vita agra, anche questa ben nascosta, e la lessi tutta d’un fiato, capendo la metà di quel che andava capito. Me ne rimase però la sensazione di un libro scritto solo per me, una sorta di confidenza padre/figlia, la storia di una vita e di un tormento che dovevano in qualche modo uscir fuori. Non era così, ovviamente, e le numerose riletture fatte nel tempo mi svelavano man mano un manifesto letterario, politico, sociale, perfino religioso di una vastità e di un’importanza che - credo - non abbiano uguali. Tutt’oggi non capisco come il libro possa essere passato alla censura che in quel tempo era feroce, ma forse solo per gli aspetti di sesso. Ricordo la denuncia per oscenità e vilipendio alla religione cattolica per un racconto di mio padre, La solita zuppa, che venne sequestrato nelle librerie. L’autore, l’editore e persino lo stampatore furono processati, e gli atti di quel processo, con le frasi incriminate per oscenità, sono addirittura esilaranti. La difesa dello stampatore, poi, è un capolavoro di inconsapevole comicità.
Ma La vita agra, chissà perché, passò indenne dal vaglio censuriale. Eppure si dice che «se fosse una questione politica, io saprei il da fare. Se si trattasse soltanto di aprire un vuoto politico, dirigenziale, in Italia, con pochi mezzi ci riuscirei. Il progetto l’ho già esposto altrove, ed è semplice. Mi basta da un massimo di duecento a un minimo di cinque specialisti preparati e volenterosi, e un mese di tempo, poi in Italia ci sarebbe il vuoto. E nemmeno con troppe perdite: diciamo una trentina, e nessuno dei nostri. Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia». Chissà che il terrorismo di qualche anno dopo non avesse letto - e ovviamente mal interpretato - questa affermazione.
Anche il film de La vita agra, uscito due anni dopo, non potei vederlo: a vietarmelo non fu più l’autorità di mamma e nonna, bensì - stavolta - la censura. Il film era vietato ai minori di quattordici anni, forse perché narrava la vicenda di un uomo che lascia la moglie per un’altra donna, visto che nel film in realtà non c’è nessuna - o quasi- suggestione erotica. Il film, comunque, ha un finale diverso dal libro, nel quale il protagonista si addormenta pensando che «non c’è più», quasi a prefigurare un sonno più duraturo di quelle sei ore. Nel film, poi, il protagonista torna dalla moglie; o meglio, è la moglie a tornare da lui, lamentandosi che in quella casa manca la mano di una donna. Dell’unica donna, cioè, che può stare accanto a un uomo. La moglie. Così voleva la morale dell’epoca, e così scrissero gli sceneggiatori, Vincenzoni e Amidei.
A quella prima lettura de La vita agra, come ho già detto, ne sono seguite molte altre e molte altre ne seguiranno: quell’inizio di rapporto padre/figlia, con la sensazione infantile che il libro parlasse solo a me, non si è esaurito nel tempo; anzi, con la scoperta che Babbo Natale non esiste, mi è rimasta la sensazione che quel babbo che diceva di avere soltanto l’odore del babbo, sia in realtà un’ombra, non sempre leggera, una nuvola, non sempre piacevole, ma che sempre mi segue e mi avvolge.