Tuttolibri, 12 febbraio 2022
Intervista a Peter Wohlleben, esperto di foreste
C’è la notizia buona e quella cattiva. Quella cattiva è che ogni giorno siamo bersagliati da notifiche, interruzioni, disturbi: li sperimentiamo in diretta nel corso della nostra conversazione su Zoom con Peter Wohlleben, lo studioso di scienze forestali che dopo vent’anni di servizio al Corpo forestale della Renania- Palatinato, in Germania, ha deciso di licenziarsi per dar vita a un’azienda forestale ambientalista in difesa della foresta vergine e ha inanellato sul tema una serie di bestseller, l’ultimo dei quali, Il battito del cuore degli alberi, è da poco uscito per Garzanti con la traduzione di Giuliana Mancuso.
Anche lui, che scrive di silenzi e lunghe passeggiate nei boschi, viene continuamente interrotto da bip, trilli e squilli di natura elettronica, anche se confessa di tenere spesso la finestra aperta per lasciare entrare aria, rumori, e odori di altra natura, quella vera. «Ma c’è anche la notizia buona – dice – e cioè che le nostre percezioni si possono esercitare, non sono atrofizzate, possono essere risvegliate in qualunque momento, e con l’abitudine possono tornare a classificare i singoli impulsi: le diverse sfumature di verde, i suoni degli uccelli distinti da quelli delle auto, gli odori di nuovi fiori o cespugli o arbusti, la consistenza liscia o porosa di foglie, tronchi e radici».
Peter Wohlleben, con la pandemia molti hanno cominciato a passeggiare di più, a preferire l’isolamento. E’ d’accordo con chi pensa che la pandemia sia un segnale che l’ecosistema ha voluto mandare all’uomo, al suo sistema immunitario, ma anche al suo modo di rapportarsi all’ambiente?
«Non credo che si tratti di un segnale "attivo", ma credo che si annidino molti pericoli in ciò che cerchiamo di fare manipolando la natura nei laboratori. Se c’è una lezione che dobbiamo assolutamente raccogliere, ecco non viene e non riguarda la natura, ma noi stessi: non possiamo controllare la natura, è solo un’illusione di controllo. Il Coronavirus ha mostrato molto bene che le più piccole forme pensabili di vita possono riuscire a distruggere la nostra intera civilizzazione, per fortuna non è successo, ma è un segnale chiarissimo di quanto il nostro controllo sulla natura sia una chimera».
Lei scrive che non dobbiamo proteggere la natura dall’estinzione. Che significa, qual è il modo giusto di intendere la protezione dell’ambiente?
«La protezione del clima e dell’ambiente come lo intendiamo oggi non ci permette effettivamente di proteggerlo. Guardiamo le previsioni del tempo: quelle della prossima settimana corrispondono a malapena, su tre giorni va un po’ meglio, su due settimane quasi per niente. E se applichiamo questo discorso alle previsioni climatiche è la stessa cosa. Se vogliamo proteggere l’ambiente dobbiamo renderci conto che questo significa anche lasciare, mantenere un atteggiamento passivo, ogni volta che cerchiamo di manipolare il valore della natura sbagliamo strada».
Sempre più persone confessano di parlare con le proprie piante, in qualche caso di avere proprio una forma di relazione: la scienza cosa dice al proposito?
«La scienza niente, almeno per il momento. Si sa in parte che le piante possono provare dolore, ci sono studi universitari al proposito, e in alcuni casi sappiamo che certi tipi di piante possono vedere. Il punto è che le piante sono molto molto più lente di noi e possono sentire rumori, percepiscono l’acqua, gli insetti, ma con tempi di reazione estremamente rallentati. Se vogliamo comunicare con le piante dobbiamo capire la loro lingua, e al momento non ci sono indicazioni che una relazione uomo-pianta sia possibile in base a ciò che noi intendiamo per comunicazione».
I capelli come canale comunicativo tra uomo e albero? Può spiegarcelo meglio?
«Non si tratta di comunicazione, ma di campi elettrici. Se abbracciamo un albero, sia il nostro corpo che quello dell’albero poggia sul terreno, dunque non c’è differenza di potenziale. Teoricamente però si potrebbe partecipare al campo elettrico di un albero – chiamarla comunicazione è un po’ troppo – grazie ai capelli, che avendo una scarsa conduttività elettrica potrebbero reagire, rizzandosi come succede quando ci si leva una maglietta sintetica. Questo fenomeno si può studiare bene nel caso di piccoli animali, ma si tratta di studi ancora allo stato embrionale».
Pensa che ci sia stata un’epoca in cui le interazioni fra piante e uomini fossero diverse, più intense?
«Se quell’epoca risale a diecimila anni fa, credo che ci siano state sicuramente delle interazioni, almeno nella misura in cui l’uomo si trovava all’interno di un sistema naturale intatto e stabile. Ed è sensato pensare che per sopravvivere in un ambiente forte abbia dovuto sviluppare una certa consapevolezza delle regole imposte dall’ecosistema. Sì, ha senso pensarlo…»
Cosa c’è nello studio della neurobiologia delle piante che non le fa fare passi avanti rispetto alle neuroscienze applicate al regno animale?
«Questione di soldi, il maggior numero di fondi riservati alla biologia sono riservati alla biologia umana, poi viene quella animale, alle piante resta molto poco. E poi c’è una barriera culturale in base a cui le piante non sarebbero interessanti come gli animali. Ci sono scienziati che si pongono domande davvero molto stimolanti sulle chance neuronali delle piante ad esempio, ma i fondi sono sempre pochissimi. E’ un peccato perché alcuni di loro, in Italia per esempio c’è Stefano Mancuso, avrebbero davvero la possibilità di dire cose molto interessanti. C’è poi il problema della comunicazione scientifica, che dovrebbe essere più intensa di quanto non sia, ma l’ostacolo principale è che le piante non hanno neuroni, e quindi le neuroscienze non le prendono in considerazione».
Lei però non esclude che le radici siano una forma di cervello delle piante, giusto?
«Già Darwin aveva individuato nelle estremità delle radici qualcosa che potesse funzionare come il cervello di animali dotati di una struttura elementare. Ci sono teorie che ipotizzano una cooperazione tra milioni di estremità di radici tali da poter funzionare appunto come "piccoli cervelli" – come dimostra del resto il fatto che ciò che colpisce le radici di un albero, ad esempio, coinvolge poi l’intero organismo di un albero. Forse è solo un’altra struttura, che andrebbe però studiata a fondo, ma da allora praticamente non si sono fatti reali passi avanti».
Quanto sono importanti le parole che usiamo per riferirci alla natura?
«Moltissimo, ma quando si parla di natura si utilizzano parole che non creano empatia, come la protezione, la difesa, tutti termini che non hanno una risonanza emotiva nelle persone. Ho letto un articolo interessante in cui ci si chiedeva: se Mosé avesse descritto la terra promessa come un luogo non in cui scorreva latte e miele, ma secrezioni mammarie e vomito di insetti, chi lo avrebbe seguito? Quando usiamo espressioni come area protetta, che vogliamo dire? Protetta da chi? Da noi? Ed è chiaro che questa idea di esclusione rimane nella nostra coscienza, e anziché avvicinarci alla natura ce ne allontana. Se la chiamassimo oasi magari sarebbe diverso…».
Quanto tempo al giorno bisognerebbe stare in contatto con la natura secondo lei?
«Il mio consiglio è almeno due o tre ore a settimana, ma in modo profondo, senza smartphone alle orecchie, guardando gli alberi, cercando di distinguere i rumori, toccando le foglie. Meglio di tante medicine… Di più è meglio, ma almeno due o tre ore in un bosco o in un parco sono sufficienti».