il venerdì, 11 febbraio 2022
Biografia di Pier Paolo Pasolini
NEI SUOI RIFUGI CORSARI
Di Nicola Mirenzi
Roma. Si arriva in piazzetta e subito si legge una targa: “In questa borgata è vissuto Pier Paolo Pasolini”. Intorno al travertino “in ricordo di” c’è un mini assembramento di vecchi giovani del posto. «Enzo, faje vede tu ‘ndo sta ‘a casa, che sei er più vecchio e Pasolini l’hai pure conosciuto». «L’ho conosciuto sì che l’ho conosciuto. Quanno passava er caretto coi gelati me ne comprava sempre uno». «Dije pure che je davi in cambio», alludono sorridenti e cinici gli altri. «Ma fatela finita, a’ buciardi».
L’appartamento dove Pasolini ha abitato per un paio d’anni, dal 1951 al 1953, poco dopo il suo arrivo a Roma, è a poche decine di metri. Via Tagliere 3, primo piano, una sessantina di metri quadri. «Qua stamo a Rebibbia, de là comincia Ponte Mammolo». Al fondo della strada si intravede un angolo del carcere. La casa che fu abitata da Pasolini è vuota. Le imposte chiuse. La vernice screpolata dal tempo. L’aspetto generale, decrepito. Il 17 dicembre scorso l’asta indetta per venderla è andata deserta. Il prezzo di partenza era di poco meno di 123 mila euro. «Non la vedi che cade a pezzi? Chi la vuole ‘sta casa?». La seconda asta si terrà entro il mese di febbraio e il Comune di Roma avrebbe in mente di intervenire con un «progetto di riqualificazione».
«Ma te che sei venuto a fa’ qua?» chiedono al cronista. Il 5 marzo saranno cento anni che è nato Pasolini. «E te sembra che noi parlamo de Pasolini tutto er giorno?» dice Gianni. Poi partono i ricordi: «Quando uscì er Decamerone semo annati ar cinema a vedello perché c’era Mirella». E chi era Mirella, una vostra amica? «Ma che amica: era ‘na mignotta!». Seguono dettagli sulle virtù di Mirella.
Della casa di Rebibbia Pasolini scrive in Poeta delle ceneri: “Abitammo in una casa senza tetto e senza intonaco/ una casa di poveri, all’estrema periferia, vicina a un carcere./ C’era un palmo di polvere d’estate, e la palude d’inverno”. Oggi non è più così. «Qua erano tutti buròni» dice Enzo. Adesso, invece, non si distingue più dove finiscono le case. «So che a quei tempi Pasolini se la passava male economicamente». Non si sbaglia. Era successo che, in Friuli, qualche anno prima, aveva vissuto il primo scandalo pubblico della sua vita. Si era appartato con tre ragazzi, il giorno della festa di Santa Sabina, a Ramuscello. Uno aveva sedici anni, gli altri meno. Disse a suo cugino Nico Naldini: «Una serata indimenticabile». Poi i ragazzi si accusarono a vicenda della cosa, probabilmente una reciproca masturbazione. Qualcuno ascoltò e fece girare la voce, che arrivò ai carabinieri. Interrogato, Pasolini non negò: disse che aveva tentato un’esperienza erotica e letteraria ispirato dai romanzi di André Gide. Il pretore si mostrò prevedibilmente poco sensibile all’argomento letterario e lo accusò di corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico.
Pasolini fu licenziato dalla scuola di Valvasone nella quale insegnava. Il Partito comunista, di cui era segretario di sezione a San Giovanni di Casarsa, lo espulse per indegnità morale. In un colpo solo, ridotto in miseria e sepolto dalla vergogna. «In paese ci fu un gran clamore» racconta Elio Ciol, fotografo, 93 anni a marzo. «Ma credo che il problema più grande Pier Paolo lo avesse dentro casa».
La casa era quella degli avi del ramo materno, i Colussi. Qui Pier Paolo rimase «solo col dolore mortale di mio padre e mia madre». Il padre, Carlo Alberto, era un militare, e anche fascista. Lesse la notizia sul giornale. Tornò a casa e chiese urlando alla moglie cosa fosse successo. Furioso. Da tempo beveva ed era spesso preda dell’ira, ma stavolta arrivò al culmine. «Un altro al mio posto si ammazzerebbe» scrisse Pasolini. Anche per questo, poco più tardi, di nascosto dal padre, scappò da Casarsa. «Fuggii con mia madre a Roma» scrive, «come in un romanzo».
prima e dopo
La vita e l’opera di Pasolini sono spezzate in due da questo trauma. C’è un prima e c’è un dopo la fuga da Casarsa. Nella vita di prima, c’è Bologna. La città in cui è nato, in via Borgonuovo 4. Anche qui una targa ricorda solennemente l’avvenimento (“Qui nacque”). Eppure la casa veramente importante di Pasolini a Bologna è un’altra, mi spiega Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile dell’Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna. «Si trova a via Nosadella 48». Dopo la nascita del primogenito, i Pasolini cambiano varie case, seguendo i trasferimenti di Carlo Alberto: Parma, Belluno, Conegliano, Sacile, Cremona, Scandiano. Quando tornano a Bologna è il 1937.
A via Nosadella niente ricorda il passaggio di Pasolini. Studiò prima al liceo Galvani, poi all’università. Oggi la casa è abitata da un’attrice, Eleonora Massa. «Ho saputo che era stata casa sua solo quando ho firmato il contratto d’affitto» racconta. «Il proprietario, dopo aver chiuso le carte, mi disse: “E sa, qui ha vissuto anche Pasolini”. La mia anziana vicina, Maria, se lo ricorda. Sostiene di non averlo mai visto salire le scale senza libri in mano».
In questa casa di Bologna, racconta Chiesi, Pasolini «scrive i primi versi che saranno pubblicati» e si «nutre dei libri che acquista a metà prezzo alle bancarelle della libreria Nanni, al Portico della Morte». Poi c’è il cinema Splendor, gli spettacoli teatrali, inscenati anche in casa, gli amici letterati e su tutti l’incontro all’università con il leggendario critico e storico dell’arte Roberto Longhi, «sguainato come una spada».
Le estati le passava a Casarsa, in Friuli, dove nel 1942 si trasferì definitivamente. Per la madre, durante la guerra, Bologna era diventata troppo insicura. Pier Paolo matura la sua vocazione pedagogica, insegnando ai figli dei contadini friulani. «Nella chiesetta di Sant’Antonio», racconta Elio Ciol, «ci faceva grattare gli affreschi con la cipolla perché risaltassero meglio i colori e poi ce li spiegava. Portava delle novità che erano al di là della nostra immaginazione».
Tutt’altro è il Pasolini che arriva a Roma in fuga da Casarsa. È in preda alla disperazione. La madre va ad abitare dallo zio, lui affitta una camera, entrambi a piazza Costaguti, nel quartiere ebraico. Lei, Susanna, farà per un periodo la governante presso una famiglia con due bambini per guadagnare qualche soldo. Questo lo prostra ancor di più. «L’altro ieri si è gettato nel Tevere un giovane dai venticinque ai trent’anni», scrive. «Potrei essere io». In un’altra lettera: «Disgraziatamente devo vivere per mia madre». Si iscrive al sindacato delle comparse di Cinecittà. Piazza qualche articolo su giornali cattolici e di destra. E nel frattempo scopre Roma, traghettato da due guide: Sandro Penna, che lo inizia all’erotismo omosessuale della città pagana, e Sergio Citti, un imbianchino di diciotto anni conosciuto sull’Aniene che lo fa immergere nel mondo delle borgate dall’interno, diventando il suo «dizionario vivente». Si vanta con gli amici di aver imparato a dire «li mortacci vostra» e si sente come le persone che abitano Primavalle, il Quarticciolo, Tiburtino, Pietralata. Loro scartati dalla città. Lui dalla società.
«più da bancario che da artista»
L’appartamento di Rebibbia non era grande. La camera studio di Pasolini diventava sala da pranzo quando c’erano ospiti. Susanna era una brava cuoca e gli amici – Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Carlo Emilio Gadda – arrivavano col fiasco di Frascati per gustare i suoi manicaretti. Quando più tardi si trasferirà da Rebibbia a via Fonteiana, «un posto delizioso e dignitoso», reinventerà letterariamente il mondo delle borgate, con il romanzo Ragazzi di vita, un successo folgorante per il quale subirà anche un processo per pubblicazione oscena, avviato dalla segnalazione alla procura del presidente del Consiglio, Antonio Segni.
Rispetto a Rebibbia, le altre tre case che Pasolini avrà a Roma sono accomunate da un tratto progressivamente sempre più borghese e placido. Due sono nel quartiere di Monteverde. La prima, appunto, è in via Fonteiana 86. Lo ricorda l’ennesima targa. Bisogna citofonare per vederla, perché si trova nell’atrio. La seconda, poco distante, è in via Giacinto Carini 45. È al primo piano. Al suo posto, oggi, uno studio dentistico. Su, al quinto piano abitava Bertolucci. Al secondo, invece, il signor Paolo. Giocando, racconta, gli capitava di far cadere dei giocattoli sul terrazzo sottostante. Pasolini, disturbato, apriva la porta stizzito. Una scena dissonante rispetto all’estrema gentilezza a cui viene sempre associato.
Alla quale se ne aggiunge un’altra, ancora più intensa. Nel 1963 Pasolini viene processato per direttissima per il film La ricotta. L’accusa è vilipendio della religione cattolica. Entra in casa la sera alle sette e mezza e dà la notizia: «Sono stato condannato». La madre emette un urlo e sviene. Lui va nell’angolo dove c’è il telefono e chiama furibondo il pubblico ministero. Gli urla che è responsabile della sofferenza inflitta alla madre.
La terza casa è all’Eur, in Via Eufrate 9, vicino alla metafisica Basilica dei Santi Pietro e Paolo. Oggi si vede sporgere dal giardino pensile un delizioso albero di limoni. Pare che la madre all’inizio abbia fatto fatica ad ambientarsi, poi fu felice di occuparsi del giardino. Osservando queste case si rimane colpiti dalla strepitosa normalità. Più Pasolini diventa famoso, ha successo come scrittore e regista, in Italia e all’estero, più è perseguitato dalla magistratura e scandalizza, più, paradossalmente, si rafforza nella sua vita domestica un tratto anonimo.
«Quando sono entrato per la prima volta nella casa all’Eur» racconta Pupi Avati, «ho pensato che sarebbe potuta benissimo essere la casa di un impiegato, di un bancario. Tutto sembrava fuorché la casa di un artista». Ogni mercoledì e giovedì Avati andava in via Eufrate per scrivere la sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma. «Era come posseduto. Voleva scrivere l’opera definitiva sul Male, oltrepassare ogni limite, ogni regola». E tutto questo avveniva in un ambiente del tutto convenzionale, escluso un enorme lampadario ottocento inglese, di ottone, a più bracci. Quasi che la sua immaginazione, come la sua vita, avesse bisogno di un rifugio rassicurante per riuscire a spingersi all’estremo.
La sua vita privata rimaneva fuori di lì. La casa romana era il luogo privilegiato del rapporto con la madre, ambiva a soddisfare il desiderio e il gusto materno. Per trovare la prima casa che assomigli davvero a Pier Paolo ci sono da fare circa un’ottantina di chilometri da Roma e arrivare nell’alto Lazio, in provincia di Viterbo.
«non citofonate»
La casa nella Torre di Chia, Pasolini la progetta con il suo scenografo Dante Ferretti, ristrutturando un fortilizio medievale abbandonato. Aveva scoperto la Torre nel 1964 girando la prima scena in esterno del suo Vangelo secondo Matteo. Scrive che è «nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto/ sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta/ innocenza di querce, colli, acque e botri». Se ne innamora all’istante e decide di comprarla. Ci riuscirà solo nell’autunno del 1970. Di recente la casa è stata venduta a un giovane attore. Quando si arriva davanti all’ingresso si trova scritto: “Questa è un’abitazione privata. Non citofonate”.
Qui Pasolini scrive molte pagine di Petrolio e sale sino alla perfezione stilistica degli Scritti corsari. «In nessun posto riesco a lavorare così come in quel posto di querce così perfettamente arcaico. A lavorare, dico, non a vivere. Io amo vivere in una grande città. E non avrei mai preveduto che le grandi città italiane sarebbero divenute luoghi così orribili».
Mentre si dispera per la mutazione antropologica che ha investito l’Italia e soprattutto gli italiani, trova un altro rifugio più a sud, una villa a Sabaudia che acquista in comproprietà con Moravia. «Sa dov’è la casa di Pasolini e Moravia?». «Ma nun so’ morti?» risponde uno dei pochi pescatori sulla spiaggia. La casa è di colore chiaro. Ha una forma estremamente geometrica. «Ci andavamo anche d’inverno» mi racconta Dacia Maraini. «Pier Paolo si concedeva un paio d’ore per nuotare o giocare sulla spiaggia, poi lavorava come un pazzo». Sembra di rivederlo su queste dune, salire e scendere come un folletto, al modo in cui è ripreso nel documentario La forma della città. Dice che il fascismo che ha costruito Sabaudia non è riuscito a intaccare minimamente la realtà italiana. Mentre la civiltà dei consumi nel giro di pochi anni l’ha distrutta. Scrive ancora: «Per me l’unico modo giusto per vivere fuori dalla città è vivere in una grande città straniera». Pare volesse comprare casa in Africa, altre volte la immaginava ancora più lontano, a Sana’a, nello Yemen. Ninetto Davoli gli diceva: «A Pa’ ma come fai coi film?». La risposta è misteriosa. Ma è verosimile dedurre che Pasolini non avesse smesso di cercare, oltre a tutto il resto, anche il posto giusto dove abitare.
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